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 2010  giugno 13 Domenica calendario

Cavour non morì di malaria

Che cosa hanno tra loro in comune le morti del faraone Tutenkhamen [Tutankhamon] (1323 a.C.), del conquistatore Alessandro il Grande (323 a.C.) dell’imperatore Tito (81 d.C.), del re dei goti Alarico (410 d.C.), del filosofo Agostino d’Ippona (430 d.C.), dei poeti Dante Alighieri (1321) e Lord Byron (1824), dei papi Gregorio V (999), Damaso II (1048), Leone X (1521), Sisto V ( 1590) e Urbano VII (1590), del pittore Caravaggio (1610), degli statisti Oliver Cromwell (1658) e Camillo Cavour (1861), del ciclista Fausto Coppi (1960) e del biologo William Hamilton (2000)? Si ritiene che siano tutti morti per malaria. La prova che il parassita della terzana maligna ( Plamodium falciparum) abbia davvero ucciso qualcuno di loro ce l’abbiamo solo nel caso di Coppi e Hamilton. Mentre per i morti prima del 1880, anno in cui il medico militare francese Alphonse Laveran descrisse per la prima volta il parassita malarico nel sangue di un paziente colto da accessi febbrili intermittenti, si può congetturare un ruolo del parassita a partire dalle descrizioni del decorso clinico della malattia rivelatasi fatale, nonché dal periodo e dal luogo in cui venne contratta.
Forse va eliminato dall’elenco Camillo Benso conte di Cavour, l’artefice dell’unità d’Italia, del quale nel corso dell’anno a venire si parlerà molto. L’anatomopatologo e pneumologo di Forlì, Venerino Poletti, conterraneo del celeberrimo Giovan Battista Morgagni, ha riesaminato la malattia che causò la morte dello statista il 6 giugno del 1861. Arrivando alla conclusione che non si trattò di malaria, ma più probabilmente di una porpora trombotica trombocitopenica. In vista delle celebrazioni dell’unità del paese, l’anatomopatologo forlivese intende riesaminare anche le cause della morte di altri tre protagonisti del Risorgimento italiano: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II.
Quali considerazioni retrospettive sui resoconti clinici resi pubblici durante la malattia di Cavour hanno indotto Poletti a contestare la diagnosi fin qui storicamente accettata? Di fatto, le modalità del decesso di Cavour. Poletti fa notare che se si fosse trattato di malaria grave, l’illustre paziente avrebbe dovuto manifestare insufficienza respiratoria e gravi, persistenti stati di prostrazione. Invece, i resoconti dicono che si alzò da solo dal letto poche ore prima di morire, e che il decesso avvenne in modo quasi improvviso. «Due deboli rantoli subito repressi ci avvertirono che senza sofferenze, senza agonia, egli aveva resa l’anima a Dio»: così scriveva l’amico e biografo William de la Rive ( Le compte de Cavour, Parigi, 1862). impossibile verificare l’ipotesi diagnostica della porpora trombotica trombocitopenica.
 però stimolante ragionare su ulteriori motivi, di carattere epidemiologico, per cui l’ipotesi di una malaria grave può essere messa in discussione. Tutti i resoconti convergono nel datare al 29 maggio 1861 l’esordio dei primi sintomi, mentre Cavour si trovava nella sua tenuta agricola di Leri, una frazione di Trino in provincia di Vercelli. I possedimenti di Cavour comprendevano estese risaie, di cui egli aveva migliorato il sistema idrico di allagamento, e quindi nella zona erano diffuse zanzare e parassiti della malaria. Dai resoconti medici sulla sua salute sembra che lo statista avesse già contratto un’infezione malarica, che era cronicizzata, e per la quale era stato trattato negli ultimi mesi del 1860 con diversi salassi. Cavour era giunto a Leri il 18-19 maggio 1861, proprio nel periodo in cui le risaie venivano inondate, e quindi aumentava la densità delle zanzare. Ma qual era l’effettivo rischio, per Cavour, di contrarre ancora la malaria grave in quella stagione?
Sul rapporto tra risaie e malaria, agli inizi del Novecento, cioè dopo la scoperta, avvenuta nel 1898, che il parassita malarico viene trasmesso dalle zanzare del genere Anopheles, si sviluppò un intenso dibattito. La conclusione fu che la diffusione progressiva delle risaie nel Nord Italia determinò, a partire dal XVIII secolo, un declino della malaria. O, meglio, l’estensione delle risaie comportò un incremento della terzana primaverile, cioè della malaria dovuta a Plamodium vivax,
che è lieve e rarissimamente mortale. Ma le nuove tecniche di coltivazione del riso, che implicavano un controllo del regime delle acque, l’aumento del reddito medio e quindi il miglioramento delle condizioni abitative, igieniche e alimentari, abbatterono nel complesso la gravità dell’endemia.
Di fatto, la probabilità di contrarre nuovamente la malaria da falciparum – verso i cui sintomi più seri sarebbe stato peraltro relativamente immune grazie alla forma cronicizzata – era bassissima o quasi inesistente a primavera, per motivi climatici e perché era quasi esclusivamente diffusa, soprattutto al nord e nelle risaie, la terzana benigna (da vivax). Le forme febbrili che invece lo colpirono nel tardo autunno del 1860, più plausibilmente potevano essere da terzana maligna, che si chiama infatti febbre estivo-autunnale, perché si manifestava tipicamente nell’estate avanzata e poi continuava a colpire i malati fino all’inizio dell’inverno. Il salasso, insieme alla polvere della corteccia di china, che contiene chinina e di cui era già stabilità l’efficacia terapeutica, era un trattamento largamente diffuso per le febbri intermittenti, e a posteriori si può dire che in diversi casi risultava di qualche aiuto sintomatico, in quanto togliendo il sangue si eliminavano i globuli rossi e l’emoglobina che il parassita malarico utilizza per riprodursi nell’ospite umano.
Anche se Cavour non morì di malaria, il fatto che l’artefice dell’unità del paese abbia provato gli effetti debilitanti dell’infezione è emblematico del ruolo tragicamente negativo che la malattia avrebbe giocato nel frenare uno sviluppo economico e civile organico della nuova realtà politico-geografica. Durante l’Ottocento, la penisola che si avviava verso l’unificazione politica era caratterizzata da una manifesta diversificazione degli assetti economici e demografici tra il Nord e il Centro-Sud-Isole, in relazione al diverso peso che aveva assunto la malaria nei due diversi contesti.
I primi dati omogenei, riguardanti l’intero territorio nazionale, sulle condizioni sanitarie e quindi anche sulla diffusione della malaria e sui contesti sociali ed economici a cui era associata, emersero da una serie di inchieste: l’ Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia
(1877), l’Inchiesta sulle strade ferrate
(1880), e l’Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei comuni del Regno
(1880). La prima statistica sanitaria nazionale risale al 1887. La malaria risultava diffusa su circa un terzo del territorio italiano. I morti erano oltre 20mila all’anno, e il numero totale di casi veniva stimato nell’ordine di circa 2 milioni, su una popolazione complessiva inferiore a 30. La malattia risultava diffusa maggiormente nel Centro, nel Sud e nelle Isole. Circa il 10% della popolazione italiana viveva stabilmente in zona malarica, e più del triplo vi si stabiliva stagionalmente per lavoro. Su circa 11 milioni di abitanti del Mezzogiorno, 8 erano a rischio di contrarre l’infezione. Non meno gravi erano le ricadute economiche, dato che l’infezione fiaccava il lavoro agricolo, e impediva la coltivazione di oltre 5 milioni di ettari.