GIORGIO BOCCA, la Repubblica 13/6/2010, 13 giugno 2010
ALFA CENT’ANNI - IL GUSTO PER IL LAVORO BEN FATTO MIRACOLO DELL´ARISTOCRAZIA OPERAIA - A
che punto è il lavoro, la condizione operaia in una fabbrica di automobili? Una trentina di anni fa, quando cominciai a occuparmene come giornalista, l´automazione, l´impiego delle macchine intelligenti stava cambiando il modo di fare l´automobile e tutti, padroni e sindacati, andavano in cerca di questo miracoloso nuovo modo.
Ci si rese conto in breve che non esisteva un modo totalmente nuovo di fare l´automobile, sia nelle fabbriche di auto di alta qualità come l´Alfa Romeo, sia di auto per il mercato di massa come la Fiat. C´era però un modo per fare lavorare gli operai ed era quello di eliminare i reparti più faticosi e sgradevoli: la verniciatura, la cromatura, le presse.
Eravamo nei primi anni Ottanta e l´intero apparato produttivo - imprenditori, ingegneri, sindacalisti riformisti e sindacalisti rivoluzionari - si misero a cambiare il modo di fare l´automobile scoprendo però che esso restava la novità, meravigliosa ma anche tremenda, della rivoluzione industriale, un mutamento a cui nessuno poteva opporsi.
Una trentina di anni fa, quando incominciai a occuparmi della cosa tremenda e meravigliosa che era una fabbrica di automobili, si era appena usciti dal periodo pazzo degli autunni caldi, del «canto del cigno» della classe operaia, come diceva Renato Curcio, della sua ultima feroce e romantica ribellione alla sudditanza, agli interessi superiori della finanza e della tecnica. Allora Cesare Romiti, l´amministratore delegato della Fiat, era l´uomo di punta dei conservatori, del ritorno all´ordine e all´inevitabilità dello sviluppo. «Il processo in corso - mi disse - è di quelli obbligati e irreversibili, come la fine della navigazione a vela e il passaggio a quella a vapore. Prima o poi il sindacato operaio doveva accettare la realtà del mercato mondiale. Io non dico che il carnevale e l´anarchia degli anni Settanta siano stati decisivi per il ritorno alla ragione, dico che siamo stati costretti ad anticipare l´automazione al punto che oggi siamo fra le fabbriche più avanzate del mondo. La rivoluzione tecnologica creerà dei problemi enormi, i prossimi anni saranno durissimi, ma cosa si poteva fare altrimenti, come era possibile sopravvivere all´anarchia, alle mense alternative, al commercio ambulante nei reparti, ai bordelli fra quattro cassoni con le prostitute assunte come operai e quelli della Chen Po Ta che bastonavano i capi officina e organizzavano gli happening, le merende sui prati di Mirafiori e simpatizzavo con il terrorismo, con i "compagni che sbagliano" ma che compagni restano?». Non furono solo le avanguardie sindacali a coltivare i sogni e le utopie del Sessantotto, ci fu in tutto il mondo una rivoluzione sociale che si sovrappose a quella produttiva. Ma aveva ragione Romiti quando diceva che la svolta, il ritorno alle necessità della produzione, non fu solo la marcia dei quarantamila quadri Fiat o la paura di perdere il posto di lavoro. Diceva bene Romiti: «Oggi chi lavora nella Fiat è per la sfida tecnologica, per la produttività, per il cambiamento "sulle nostre gambe"». O forse più semplicemente c´è stata in quegli anni alla Fiat e all´Alfa il ritorno a una cultura operaia razionale, conscia che senza produzione non c´è ricchezza da distribuire, e anche il ritorno all´attaccamento al lavoro ben fatto e il rifiuto delle utopie autolesioniste come il diritto al salario distaccato dal lavoro.
Diverso il discorso sulla vendita o svendita dell´Alfa Romeo alla Fiat. Negli anni Settanta l´Alfa Romeo era un´azienda sana, la vendita delle sue auto era in crescita, lo stabilimento di Arese cominciava ad essere stretto. Ampliarlo? No, i danni dell´immigrazione caotica dal Meridione erano pesanti, meglio fare uno stabilimento al Sud. Venne scelta l´area di Pomigliano d´Arco, già fornita di servizi, e in tre anni furono pronti gli stabilimenti e il nuovo modello, l´Alfasud. Un miracolo di progettazione industriale, la creazione di un personale addestrato nei centri di riqualificazione di Napoli e di Caserta. A questo punto interviene il modo di far politica clientelare del tempo a creare una difficoltà dopo l´altra. Prima gli uffici di collocamento esigono l´assunzione di pregiudicati, malati, gente che abita a cento chilometri dalla fabbrica. Poi il potente onorevole Gullotti intima che «se non si fa uno stabilimento ad Avellino l´operazione Alfasud è sospesa». Nei ricordi di Giuseppe Luraghi, l´allora amministratore dell´Alfa Romeo, quelli furono giorni da incubo. Si era nel pieno di una crisi petrolifera, dunque dell´auto, e l´onorevole Gullotti pretendeva per il suo collegio elettorale una nuova fabbrica di auto come si trattasse di un´edicola di giornali. «Corro a Roma - dirà Luraghi - per chiedere all´Iri e a Petrilli di impedire quella follia e mi dicono: "Vedi Luraghi, tu sei un bravissimo tecnico, ma nel mondo della politica non sai muoverti. Dì di sì, dì che lo farai lo stabilimento ad Avellino e poi rimanderemo le operazioni all´infinito"». Luraghi se ne torna a Milano avvilito, ma le amarezze non erano finite. Di lì a poco il presidente dell´Iri, Petrilli, gli propone: «Ad Arese sono entrate in produzione le Alfette. Perché il montaggio non lo fai fare ad Avellino?». Luraghi gli risponde: «Perché dovrei licenziare cinquemila operai ad Arese e triplicare i costi. Perché mi chiedi di affossare l´Alfa». Il resto della storia è noto: l´Alfa è stata svenduta alla Fiat, il progetto di una vendita alla Ford è saltato, Luraghi e Di Nola, il suo successore, sono morti.