Roberto Faenza, il Fatto Quotidiano 13/6/2010;, 13 giugno 2010
L’ETERNA MALEDIZIONE DEL PLAGIO
Il caso Luttazzi, se di caso si può
parlare, è molto più interessante
e profondo di quanto non appaia
a prima vista. Nella bella intervista
comparsa su Il Fatto di
ieri a firma di Ferruccio Sansa, il
nostro comico scompagina le
carte, compiendo un slalom raffinato
tra citazioni colte e lezioni
di semiotica, rivolte soprattutto
ai fans, che come tutti i
fans agitano spesso una miscela
micidiale a base di amore misto
a odio. Cocktail che nell’era di
internet diventa ancora più
esplosivo e letale, perché riesce
a deflagrare in tempi record,
correre di sito in sito e diventare
scoop. Hanno ragione certi studiosi
a ritenere internet il luogo
più pericoloso che esista al
mondo. Più pericoloso dei
quartieri violenti del Bronx o
della odierna abbandonata Detroit.
Lì ti accoltellano e se proprio
ti va male ci lasci la pelle.
Amen. Qui, in internet, se vieni
beccato o diffamato te lo porti
dietro tutta la vita, perché quando
una notizia è in rete non la
toglie più nessuno, neppure i
cosiddetti spazzini del web. Ecco
perché da quando esiste il
web nessuno è sicuro. Luttazzi
risponde ai suoi accusatori che
non c’è plagio nelle sue battute
perché se è vero che copia lui lo
dichiara. Non solo, ma invita tutti a scoprire dove e da chi ha
copiato, per cui la sua alla fine è
una sorta di pedagogia di massa,
volta scoprire il bello della comicità
ampliandone l’or izzonte
e inducendo a conoscere altri
personaggi, per lo più stranieri,
che altrimenti in Italia nessuno
saprebbe chi sono. Ma i blogger
non lo ascoltano e si divertono a
colpirlo, mettendo in rete una
serie di sketch accoppiati agli
’or iginali”, assolutamente identici.
Vedi i video scaricati dai repertori
di George Carlin, da cui
Luttazzi ha ”copiato” pari pari.
Copio anch’io quanto di Carlin
scrive Wikipedia: ”Il suo sketch
Seven dirty words (Sette parole
sconce) degli anni settanta fu
oggetto di una sentenza della
Corte Suprema, ad esito della
quale il governo fu autorizzato a
regolamentare il contenuto delle
trasmissioni pubbliche per
evitare l’uso di un linguaggio
troppo volgare alla radio e alla televisione. Esistono quindi sette
parole che non possono essere
pronunciate in onda, sotto
pena di sanzioni piuttosto pesanti”.
Questa citazione andrebbe
trasmessa per conoscenza
agli estensori dell’immi -
nente legge bavaglio per rendersi
conto che non sono soli.
Sarebbe divertente fare un concorso
pubblico per stabilire
quali potrebbero essere le nostre
7 parole proibite, idea che
lancio in redazione. Sarebbe altresì
interessante scatenare i
blogger alla ricerca del colpevole
nelle aule dell’università, dove
la maggioranza delle tesi di
laurea sono frutto di un frenetico
copia e incolla da internet,
praticato dalla stragrande maggioranza
degli studenti. I più
bravi rielaborano e aggiungono
di proprio. Gli asini, che spesso
non lo sono più dei professori
che non se ne accorgono, lasciano
incollati persino i margini.
Dicevamo dei detrattori. Interessa
veramente al pubblico,
quando ride alle freddure del
nostro comico, se l’autore originale
di quella battuta è un altro?
L’interpretazione, la mimica,
la recitazione non sono forse
un qualcosa di unico, il marchio
di fabbrica che rende originale
ciò che all’apparenza potrebbe
sembrare copia? Chiedo
a Roberto Benigni cosa pensa di
questa faccenda. Risposta illuminante:
’Anche Dante copiava
”. Copiava lo stesso Virgilio,
per non dire Ovidio. Ma non era
un copiare, sottolinea Benigni,
era una sfida, spesso tesa a raffinare
il pensiero originale.
Prendiamo Woody Allen. Se i
blogger che inseguono Luttazzi
si mettessero all’opera sul repertorio
di battute e barzellette
sciorinate da Allen in ogni film
(e avessero competenza di tradizione
ebraica), scoprirebbero
che il 90% di quelle battute
arriva da una fonte precisa: la
comicità di origine yiddish. Se
poi i nostri segugi andassero alla
caccia delle origini dei personaggi
di Chaplin, primo tra tutti
il vagabondo, scoprirebbero
che un personaggio simile era
già presente negli spettacoli
della compagnia messa in piedi
da Fred Karno, impresario geniale
e scopritore di talenti comici
eccezionali. Vogliamo parlare
di Buster Keaton? Le sue
gag, le sue invenzioni, le sue piroette
acrobatiche e linguistiche
hanno un’origine chiarissima,
il vaudeville, di cui sua madre
e suo padre si nutrivano e
che avevano insegnato al figlio.
Persino il nome Buster era copiato
da un’idea altrui, quel mago
Houdini, che frequentava i
genitori di Keaton e che visto il
ragazzino rovinare da uno scalone
e rialzarsi senza farsi neppure
un graffio esclamò ”what a
nice buster”! Tralasciando Shakespeare,
gran maestro nell’ar -
te di copiare. Ne sanno qualcosa
quel Masuccio Salernitano
che un centinaio di anni prima e
quel Luigi da Porto che qualche
decennio prima di Shakespeare
avevano raccontato la stessa vicenda
di Romeo e Giulietta. E
per restare in casa nostra, che
dire del grande Eduardo? Sarebbe
esistito Eduardo autore e attore
senza mutuare in tutto e
per tutto le battute, le trame, i
personaggi e le commedie
dall’arte del suo stesso padre
naturale Eduardo Scarpetta? Visconti
quando firmò La terra
trema non volle neppure ricordare
il debito con Verga. Qualcosa
di simile accade anche a
me quando realizzo un film ispirato
a un romanzo perché mi
chiedo sempre: che c’e n t ra n o
le immagini con i fogli scritti? E
cosa fanno i milioni di frequentatori
di Youtube, se non copiare
tutto, dalle sequenze dei film
e delle fiction, dagli spot, dagli
home movies? Copiano a man
bassa, ma al tempo stesso a loro
modo creano, perchè ”modifi -
cano” la fonte, magari cambiandone
il montaggio o aggiungendo
una musica o anche solo
qualche battuta. Viviamo insomma
nell’era del plagio di
massa, che però non è più plagio,
ma qualcosa prima sconosciuto.
E’ la stessa filosofia dei
pirati del web a spopolare in rete:
nulla è tuo, né un libro, né un
film, né una canzone. Tutto è di
chi lo trova e se lo prende, facendolo
suo. Con buona pace
del diritto d’autore.