Stefano Trincia, Il Messaggero 12/6/2010, 12 giugno 2010
CINA, LA RIVOLTA DEL PROLETARIATO
Lotta di classe a Guandgong. ”Primavera calda” a Zhongshan. Braccia incrociate a Foshan. Nella Cina comunista, patria planetaria del capitalismo di stato, allevamento mondiale di un proletariato a bassissimo costo e con la testa china, sorge l’alba delle rivendicazioni sindacali. Da settimane scioperi a macchia di leopardo mettono in crisi gli impianti produttivi delle grandi multinazionali, la nipponica Honda in primo luogo; trema la granitica certezza del potere centrale di poter controllare a piacimento masse imponenti di mano d’opera. Non è più garantita l’offerta al mondo intero, di un sistema paese fantastico per chi delocalizza, mix irresistibile di impianti iperproduttivi d’avanguardia e maestranze a prezzi di realizzo.
Un’inchiesta di ampio respiro pubblicata dal quotidiano americano New York Times, registra lo stupore della capitale mondiale della finanza e degli affari di fronte ai sintomi crescenti di un’impensabile rivoluzione: la nascita in Cina di un movimento sindacale vero, autonomo e bellicoso deciso a rompere le catene della schiavitù di stato, e garantire agli operai cinesi condizioni di lavoro decenti insieme a salari dignitosi.
L’ultimo bollettino dello scontento proletario cinese segnala lo sciopero di 1700 operai della fabbrica Honda a Zhongshan, un impianto che produce parti delle automobili nipponiche. Si tratta della terza fabbrica Honda ad essere colpita da agitazioni sindacali spontanee. Forme di lotta non condivise e non gestite dal sindacato di stato, la Federazione Pancinese dei Sindacati, cinghia di trasmissione diretta col potere centrale di Pechino. Che per il momento ha deciso di tollerare queste manifestazioni spontanee senza reprimerle con la forza: non per una improvviso ravvedimento sulle misere condizioni di sfruttamento imposte a decine di milioni di cinesi. Ma semplicemente perché, osserva il New York Times, dirette contro la Honda, simbolo della potenza industriale di una nazione, il Giappone, contro la quale permane in Cina una forte ostilità nazionalista.
Nel distretto industriale di Guandong, dove ha sede il grosso della produzione automobilistica, i ”berretti gialli” del sindacato di stato sono stati travolti ed accantonati da forme di aggregazione sindacale autonoma: comitato di base composti da giovani uomini e donne di età media poco superiore ai venti anni che hanno deciso di dire basta all’inferno delle ”fabbriche del sudore”.
42 ore settimanali alla catena di montaggio senza contare svariate ore aggiuntive di straordinari obbligatori, per l’equivalente di 130 dollari mensili. «Vogliamo più soldi - ha detto uno dei leader della rivolta di Zhongshan - il raddoppio degli stipendi, perché così è fame vera. L’Honda nei precedenti impianti colpiti da scioperi ha garantito aumenti del 20-30 per cento ma non ci basta»
Più soldi chiedono con i pugni rivolti al cielo gli scioperanti. E la fine del regime del terrore in fabbrica. Vietato sedersi in catena di montaggio anche per le donne incinta, a meno che non siano nell’ultimo trimestre di gravidanza. Vietato parlare. Obbligo di chiedere un ”passi” per andare in bagno. Penalità per chi si attarda troppo alla fontanella dell’acqua. Non è detto che l’abbiano vinta, conclude il New York Times. Ma la fine di un’era è comunque prossima: per i cinesi e per il nostro mondo che si ha prosperato sulle loro spalle e sul loro sudore.