Stefano Semeraro, La Stampa 14/6/2010, 14 giugno 2010
LE MANS
Se la 24 Ore di Le Mans fosse un uomo sarebbe Henri Pescarolo. Avrebbe il suo volto bruciato dagli incidenti, piegato dalla malattia, coperto da una barba fitta come la foresta di Ruaudin attorno al rettilineo dell’Hunaudières. Avrebbe la sua figura lunga, il passo agile, la sua età da profeta. La sua voce roca e impastata di notte: «Per vincere a Le Mans servono due cose. Essere veloci quanto un pilota di F1. Ed essere intelligenti. Perché la gara è così lunga che ti può succedere qualsiasi cosa, ma tu ogni secondo devi pensare a far vincere la macchina, non solo a mostrare quanto sei veloce».
Pescarolo, 68 anni, figlio di un dentista di origine italiana che lo voleva medico, parigino di nascita e «sarthois» per decreto governativo; per vocazione e destino pilota di tutto - automobili, aerei, elicotteri - e poi cuoco raffinato («mai fatto nulla da dilettante»), intenditore di vini («ho una buona cantina»), cacciatore («in campagna con il mio cane mi rilasso enormemente»), trasvolatore capace di battere su un Lockheed 18 il record del giro del mondo che apparteneva a Howard Hughes, e detentore di quello per aerei monomotore sulla New York-Parigi. Sedici volte al via della Dakar. Un santo del motorismo che la 24 Heures, per lui semplicemente «la più bella e difficile gara del mondo», l’ha vinta 4 volte e vissuta 43, prima come pilota e poi come costruttore e team manager. «Credo», spiega con lo sguardo da asceta, la parlata monotòna che esce dalla bocca curvata da un ictus, interrompendo la scrittura del quotidiano corsivo su L’Equipe, «Che sia per questo che mi chiamano monsieur Le Mans. Per le imprese che ho compiuto su una pista dove ho rischiato spesso di morire».
In principio furono i rally. Una gara amatoriale come co-equipier del padre. La fulminazione. Poi è venuto il resto, compresi 56 Gp in F1. «All’inizio della carriera ero più un pilota da monoposto. In F1 non ho mai avuto una buona macchina, i miei risultati sono scarsi. Però sono stato fortunato perché con la Matra, la mia scuderia di allora, si faceva tutto: F1, rally d’inverno, corse in salita in primavera, e poi il campionato sport-prototipi, le gare di durata dove invece ho sempre corso con le macchine migliori».
Il coup-de-foudre con Le Mans scatta nel ’68, l’anno della contestazione studentesca che convince gli organizzatori a spostare la gara ad ottobre. A sera inizia a piovere un’acqua di ghiaccio, il tergicristallo della Matra guidata dal compagno di squadra Johnny Sarvoz-Gavin si rompe. Johnny rientra ai box, la scuderia decide di ritirarsi e sveglia «Pescà» per informarlo. Ma lui si ribella («perché mi fermate? Fatemi spazio»), monta in macchina e nella notte, sotto l’inferno, doppia 25 auto a giro «senza sapere se si trovavano alla destra, alla sinistra o al centro della pista». Uno pneumatico dechappato lo costringe al ritiro, ma all’alba è già un eroe per i francesi. L’anno seguente rischia di diventare un martire. Durante un test privato a Le Mans con una Matra M640 decolla ai 240 all’ora sulla «ligne droite» dell’Hunaudières, atterra fra gli alberi e prende fuoco. Ne esce illeso, a parte le ustioni che gli segneranno per sempre il volto affilato, savonaroliano, e tenta persino di evadere dall’ospedale. Acqua e fuoco, il suo emblema. «Il più bel ricordo a Le Mans è la prima delle 3 vittorie consecutive, nel ’72. Era da 7 anni che la inseguivamo con Matra, e alla guida c’ero io, insieme con Graham Hill. All’inizio non mi andava a genio: campione del mondo di F1, vincitore di Indianapolis, pensavo che avrebbe scansato i rischi che Le Mans impone. Invece fu di notte e sotto la pioggia che facemmo la differenza, e proprio grazie a Graham, davvero un gran tipo. Il peggior ricordo è l’ incidente del ’69: schiantarsi e rimanere intrappolato in una macchina che brucia è la cosa peggiore che ti possa accadere. Ma è anche un ricordo fantastico perché sono sopravvissuto, no?».
Un fossile vitalissimo, Pescà. «Un tempo i piloti di F1 correvano anche con i prototipi. All’ultimo giro del Gp di Monaco del ’70, dove arrivai 3°, Jack Brabham si sporse e mi gridò "Ci vediamo a Le Mans!". Ora non sembrano più interessati. In F1 ci sono 19 Gp, poco tempo e budget per fare altro, i team che pagano i piloti cifre enormi non vogliono guai. Per questo non credo che la Ferrari tornerà a Le Mans, anche se sarebbe bello. Schumacher prima di correre in F1 è stato un pilota di Endurance, e gli piaceva da matti. Ora, come tutti, Michael è preoccupato della sicurezza. Tranne che quando corre in moto».
Il rischio, appunto. Pescarolo viene da un altro tempo, da un’altra sensibilità. «Non ho nostalgia di quando nelle corse si moriva ogni domenica. Però la nostra società ha rimosso il fatto che siamo tutti mortali, chi organizza una gara non può permettersi la tragedia. Il giro più divertente della mia vita lo feci al Nürburgring: il record della pista sapendo che se sbagliavo ero morto. Le Mans è pericolosa perché è un vecchio tracciato. Ci sono curve da 200 all’ora con gli alberi a un metro, è lontana dagli standard di sicurezza di un moderno circuito di F1, dove se esci di pista finisci in tanta ghiaia che per venirne fuori serve una pala. Eppure quando gli ex piloti di F1 arrivano qui, rimangono incantati dalla gara e dall’ambiente».
Questo invece è l’anno stregato di Henry. La sua Pescarolo Sport è fallita, per la prima volta lui non è nell’abitacolo o ai box. Commenta per Eurosport e promette il ritorno per il 2011, la gente lo applaude, lo venera, lo incoraggia, per tutti è un parente e un monumento. Pescà si preoccupa per il futuro delle sua corsa, minacciata dai nuovi regolamenti: «Per via dell’ambiente si vogliono cambiare i motori, ridurre le prestazioni. Ormai con una Maserati presa in concessionaria, sull’autostrada, puoi andare più veloce di una GT a Le Mans. Mi sembra stupido L’ecologia è importante, e l’ACO, che organizza la 24 Ore, deve fare qualcosa, ma senza uccidere lo spettacolo. Anche perché un Airbus che fa tre volte a New York-Parigi provoca più inquinamento di tutto lo sport motoristico».