Varie, 14 giugno 2010
[Wikileaks e il Pentagono. Con intervista ] Migliaia di documenti segreti della diplomazia americana potrebbero entro breve fare la loro apparizione sulla rete
[Wikileaks e il Pentagono. Con intervista ] Migliaia di documenti segreti della diplomazia americana potrebbero entro breve fare la loro apparizione sulla rete. I servizi del Pentagono stanno cercando di rintracciare l’australiano Julian Assange, fondatore del sito Wikileaks, specializzato nella pubblicazione di carte top secret, per tentare di convincerlo a non pubblicare il materiale apparentemente in suo possesso, che conterebbe analisi, giudizi riservati e orientamenti strategici degli Usa in Medio Oriente. Le autorità americane sono convinte che Assange abbia ricevuto in tutto o in parte i 260 mila fascicoli riservati del Dipartimento di Stato che un analista dello spionaggio militare, Bradley Manning, ha scaricato dai computer governativi e trasmesso al fondatore di Wikileaks per farli pubblicare. Manning, 22 anni, era di stanza in Iraq ed è ora agli arresti in Kuwait, in attesa che un’indagine chiarisca l’entità dell’infrazione. Le memorie fisse dei computer da cui ha scaricato i file sono attualmente all’esame degli specialisti del Pentagono. Manning è stato denunciato da Adrian Lamo, un ex hacker, dopo una serie di conversazioni online durante le quali l’analista si era vantato delle sue imprese. Manning avrebbe ammesso di essere stato lui a fornire a Wikileaks il video del 2007, mandato in rete a marzo di quest’anno, dove si vede l’attacco di un elicottero americano a Bagdad nel quale vennero uccisi 12 civili, compresi due dipendenti dell’agenzia Reuters. Non è chiaro cosa si può legalmente fare per bloccare la pubblicazione dei documenti sul suo sito. Assange non ha una dimora fissa. In marzo ha trascorso alcune settimane a Reykjavik, in Islanda, dove aveva organizzato il lancio del video dell’elicottero, titolato «Collateral Murder» (assassinio collaterale). In aprile era stato negli Usa, dove aveva rilasciato alcune interviste. La scorsa settimana, atteso a New York al Personal Democracy Forum, si è collegato via Skype dall’Australia, dicendo che i suoi avvocati gli avevano raccomandato di non tornare in America. Venerdì mattina doveva parlare a una conferenza di giornalisti investigativi a Las Vegas, ma ha cancellato l’impegno, invocando «problemi di sicurezza». Nel frattempo, Wikileaks mantiene un atteggiamento di ambiguità sulle sue intenzioni. Ha definito «non corrette», ma non le ha smentite del tutto, le informazioni secondo cui il sito avrebbe ricevuto i 260 mila cable di Manning. Ha poi messo le mani avanti, annunciando via Twitter che «ogni segno di comportamento inaccettabile da parte del Pentagono o dei suoi agenti verso di noi sarà condannato». Paolo Valentino, Corriere della sera 13/6/2010 Nato nel 1971 a Townsville (Queensland, Australia), Assange si è abituato presto a una vita senza una casa fissa. I suoi genitori lavoravano in una compagnia teatrale, così da ragazzino cambiò quasi 40 scuole e finì per frequentare l’università in sei atenei diversi. Quando aveva una ventina d’anni, Assange si appassionò all’informatica diventando uno degli hacker del gruppo ”International Subversives”. Le attività online oltre i margini della legalità gli costarono alcune multe salate, diversi giorni di prigione e 24 diversi capi d’accusa. Sostenitore dell’open source (i programmi realizzati con codice aperto, accessibile a tutti), Assange ha anche collaborato alla realizzazione di diverse soluzioni per il sistema operativo Linux. A partire dal 2006 i suoi interessi si sono poi spostati verso i documenti riservati, cosa che gli ha consentito di entrare a far parte del direttivo di nove persone che amministrano Wikileaks. Il Post, 12/6/2010 Da quattro giorni rincorro Julien Assange, che mi risponde puntualmente a ogni mail confermandomi un’intervista, ma glissa ogni volta sui tempi e modi. Non so dove chiamarlo, mi ha chiesto i miei numeri e contatti: sto per andare a cena quando ricevo da Skype questo messaggio: hi luca this is iceland can you respond? ’Iceland?”. uno dei soliti spammers su Skype? E come fa a sapere come mi chiamo? E poi realizzo e mi ricordo i titoli ”Iceland aims to become an offshore haven for journalists”: l’Islanda mira a diventare un rifugio sicuro per i giornalisti. Faccio due più due: è Assange. Rispondo, e mi appare in video la faccia da attore e la chioma platino inconfondibile. Ciao, come va? Bene, grazie. Dove sei? Sono in Islanda. Per quel progetto? Sì. Su quattro tappe, siamo alla due. Ovvero? Ovvero c’è una proposta di legge firmata da 19 parlamentari perché l’Islanda accolga tutta una serie di misure protettive della libertà di stampa e informazione e incentivi che le consentano di diventare un equivalente dei paradisi fiscali per il giornalismo investigativo. In Islanda il parlamento ospita 63 deputati, quindi parliamo di un terzo di loro. E ora una commissione sta esaminando la proposta. Cosa succede se la proposta diventa legge? Che l’Islanda creerà un precedente e un modello per gli altri stati, soprattutto quelli che hanno regole più severe contro il giornalismo d’inchiesta e la libertà di informazione. In Inghilterra guardano con molta preoccupazione a questo progetto: la rigidità delle sue corti ha creato un fenomeno noto come il ”turismo della querela”: da tutto il mondo si presentano cause contro i giornali in Inghilterra dove è più probabile vincerle. L’Inghilterra, ma anche la Francia, dove I conflitti sociali sono più aspri e I poteri economici più forti, hanno più interesse a limitare la libertà di stampa. In Islanda, soprattutto dopo il crack economico, c’è invece una grande attenzione verso una maggiore trasparenza. Wikileaks come è coinvolta? Stiamo collaborando con i promotori della legge, condividendo la nostra esperienza di perseguitati da cause e tribunali. Alla fine dell’anno scorso Wikileaks ha sospeso le operazioni ed è entrata in sciopero… No, non siamo mai stati in sciopero… Sono parole tue, le ho lette in un’intervista. Ok, abbiamo cercato di promuovere uno sciopero interno, diciamo. I costi per far funzionare Wikileaks sono diventati insostenibili e abbiamo spinto i volontari che ci lavorano a concentrarsi solo sulla raccolta di fondi. E a che punto siete? Il sito mi pare a mezzo servizio. Siamo a metà strada nella raccolta dei contributi che avevamo stabilito (600mila dollari, ndr), oltre metà strada: stiamo lavorando a rimettere tutto in piedi Adesso cosa funziona? Abbiamo ripreso a pubblicare deli documenti e lavoriamo costantemente nella protezione dei nostri server, dei nostri archivi e della sicurezza delle fonti. Abbiamo molti documenti che costituiranno le cose più importanti che abbiamo mai pubblicato. Video, database, elenchi. Puoi dire che tornerete a pieno regime in qualche mese? Stiamo già ripristinando diverse cose, gradualmente torneremo in servizio completo: questione di settimane. Sei soddisfatto di come ha funzionato Wikileaks in questi anni? Il suo successo me lo aspettavo. Ma sul rapporto con i media tradizionali sono ancora molto insoddisfatto. Non riescono a pubblicare tutto quello che gli diamo: e solo i media tradzionali hanno il tempo e i soldi per coprire i costi di tutte le verifiche e la competenza per comprendere i documenti e le storie. Non è una cosa che possa fare ”internet” o le persone normali. Ma i grandi media hanno sempre paura di non essere abbastanza sull’attualità: ci saltano sopra solo nel momento in cui facciamo notizia. Possiamo diventare notizia grazie al pubblico, ai cittadini: che però spesso non hanno le capacità né le motivazioni di capire la notizia e possono ”ammazzarla”. Da qui la soluzione delle esclusive? Il sistema dei media genera dei paradossi. Più materiale c’è e più e diffuso e più è difficile che trovi spazio sui giornali: meno una cosa circola e più è facile che i giornali ci saltino sopra. Quindi trattiamo con alcuni di loro delle esclusive. Ma diffidi dei dilettanti perché non hanno le capacità giornalistiche necessarie o perché non sono in grado di promuovere le notizie abbastanza? Dobbiamo stare attenti, se scrivono delle tue cose i dilettanti ci sono più rischi che non le capiscano, le divulghino male e chi è chiamato in causa faccia causa o protesti. Su questo non ho dubbi: il giornalismo investigativo è roba da professionisti, solo loro possono venire a capo delle enormi quantità di documenti che noi mettiamo a disposizione. Però scusami: Wikileaks vuole smontare i meccanismi perversi dei poteri politici ed economici, attaccandone la segretezza. E però con i meccanismi perversi dell’informazione sceglie invece di venire a patti. Non c’è una contraddizione? Ok. Non mi faccio illusioni sui media: la maggior parte della stampa è spazzatura e andrebbe riformata. E l’unica via per riformarla forse sarebbe distruggerla. Però noi non le vendiamo l’anima come sostieni tu. Le nostre esclusive sono a tempo, ed è una strada che vorremmo non scegliere. Ma la nostra lealtà prioritaria è nei confronti della verità e delle nostre fonti a cui dobbiamo ogni sforzo per far uscire ciò che ci hanno affidato. Cambierà qual… E comunque siamo contenti di collaborare con i bravi giornalisti. Cambierà qualcosa nel funzionamento di Wikileaks? Avremo un sistema nuovo di pubblicazione. Solo tecnologia, o anche nuovi criteri? Soprattutto una cosa interna: prima l’accesso era uguale per tutti su ogni tipo di documento, dai verbali del liceo agli scoop giornalistici. Ora stiamo creando delle gerarchie di accesso. Tornerà online anche la possibilità di commentare i documenti? Stiamo lavorando a un sistema di commenti nuovo, ma siamo ancora indietro. Abbiamo capito che un sistema alla Wikipedia – un wikisistema di commenti – è un’idea pessima: arriva sempre qualcuno che non capisce niente, o scrive cose che non c’entrano. Una bella tecnologia, accessibile, ma sbagliata per noi. La riformeremo. Wikileaks ti impegna al 100%? Salvo scrivere degli articoli, sì. Hai cautele personali particolari? Nei paesi occidentali non ho preoccupazioni sulla mia vita. In Kenya c’è stato un raid nel mio ufficio, e gente che è stata uccisa in relazione alla storia sulla corruzione dell’ex presidente. In Occidente mi spiano di certo, ma non temo per la mia vita. Quando non do il mio numero è per cautele di segretezza e per proteggere le nostre fonti. Sei soddisfatto di quello che avete fatto? Sì. Ma avremo completato la nostra missione quando ogni tecnico informatico, ogni bambino dell’asilo, ogni burocrate di un ministero saprà di poter pubblicare quello che vuole senza correre rischi. Ma la vostra battaglia è contro la segretezza in sé o contro le sue corruzioni? Il nostro obiettivo è combattere le ingiustizie. Io non sono contro la segretezza in sé, ma succede sempre prima o poi che la segretezza corrompa. Che ci siano persone con molto potere non è di per sé pericoloso: il pericolo è che ci sia segretezza nelle cose che fanno con quel potere e che questa segretezza incentivi a fare cose sbagliate. C’è un limite nel grado di civiltà che una civiltà può avere, ma l’antidoto è unamaggiore trasparenza sui documenti storici che raccontano come funziona questa civiltà. Ci vediamo a Perugia? Senz’altro. E seguite l’Islanda. Seguite l’Islanda. E ******* Berlusconi! Questa non la scrivo. Ma ti mando la trascrizione dell’intervista su Wikileaks, anonimamente. La pubblichiamo. Luca Sofri, Wired aprile 2010