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 2010  giugno 14 Lunedì calendario

LA SPALLATA DEL CIPPUTI CINESE

Come si dice Cipputi in cinese? L’operaio metalmeccanico, reso celebre dalle vignette di Francesco Tullio Altan, è in agitazione: non più nelle fabbriche dell’Italia Settentrionale, ma a Shanghai, Canton, Guangzhou e in decine di altri centri nevralgici che fanno della Cina la più dinamica economia del mondo.
A differenza del Cipputi italiano che ormai ha superato la mezza età e guarda alla pensione, il Cipputi cinese è giovane, relativamente istruito, con molte ambizioni e una vita di lavoro davanti a sé. Il Cipputi italiano ha probabilmente una piccola auto, un po’ vecchiotta, che gli serve spesso per andare a lavorare e qualche volta per andare al mare, il Cipputi cinese ha un telefonino - ce ne sono in Cina circa 700 milioni - che gli serve, tra l’altro, per organizzare scioperi e manifestazioni.
Le sue vertenze non riguardano, come a Pomigliano, la conservazione di stabilimenti e posti di lavoro ma la più classica delle rivendicazioni sindacali: più soldi, molti soldi in più nella busta paga rispetto agli attuali 120-140 euro al mese e meno ore, molte ore di lavoro in meno, rispetto alle dodici al giorno, comuni in Cina anche nelle fabbriche tecnologicamente avanzate, come quelle che producono componenti essenziali dell’iPhone e dell’iPad, le nuove meraviglie tecnologiche attorno alle quali si cerca di far rinascere l’appetito per i consumi. E queste rivendicazioni, rivolte prevalentemente - almeno per ora - ad aziende straniere insediate in Cina possono far traballare ancora di più la già poco solida economia globale.
L’insoddisfazione dei circa 200 milioni di Cipputi cinesi trova sfogo in agitazioni sindacali e aumenti salariali che complicano, aumentandone l’instabilità, una situazione economica mondiale già complessivamente traballante. Le complicazioni derivano dal fatto che, contrariamente a quanto spesso si crede, ormai la Cina non esporta principalmente magliette, scarpe e giocattoli a buon mercato e spesso di mediocre fattura: le sue vendite all’estero di materiale elettronico sono circa il doppio di quelle degli Stati Uniti, la sua industria meccanica acquista un peso sempre maggiore a livello mondiale, la componentistica cinese ha contribuito a tener bassi i costi di un grandissimo numero di prodotti industriali dei Paesi ricchi. Con il trasferimento all’estero di intere fasi di lavorazione da parte delle grandi società multinazionali americane, giapponesi ed europee, spesso non c’è alternativa all’uso di componenti elettronici e meccanici di fabbricazione cinese indispensabili per fabbricare gran parte dei nostri beni di consumo durevoli.
Sarebbe quindi impossibile trovare fornitori alternativi, almeno in tempi brevi. Per conseguenza, un aumento generalizzato dei salari industriali cinesi si rifletterebbe in una spinta generalizzata e sensibile ai costi di produzione americani ed europei e quindi in una pressione inflazionistica di entità incerta e non trascurabile. Non è facile opporsi a una simile evoluzione: l’esperienza italiana degli Anni Sessanta indica chiaramente che gli aumenti salariali legati all’arrivo di nuove generazioni sono molto difficili da affrontare. Il giovane Cipputi italiano di quegli anni voleva fortemente la televisione, l’utilitaria e i fine settimana liberi per andare al mare. Il giovane Cipputi cinese di oggi vuole fortemente entrare nell’era digitale e livelli di consumi e di tempo libero da moltissimo tempo considerati normali nei nostri Paesi.
Se la Cina dovesse rivalutare la sua moneta, come forse si appresta a fare, anche per le pressioni dei Paesi ricchi, l’aumento dei prezzi dovuto al cambio più elevato si sommerebbe all’aumento dei prezzi generato dalle rivendicazioni del Cipputi cinese: la spinta inflazionistica sui Paesi avanzati sarebbe certa e generalizzata, mentre ci sarebbe una certa compensazione per i nostri settori industriali (soprattutto quelli italiani) in diretta e difficile concorrenza con gli analoghi settori cinesi.
Uno dei pochi elementi rassicuranti della situazione economica mondiale, ossia l’attuale relativa irrilevanza delle spinte inflazionistiche, verrebbe così meno. Del resto, perché mai centinaia di milioni di lavoratori del mondo non ricco dovrebbero accettare indefinitamente di lavorare per circa un decimo di quando percepiscono i loro colleghi occidentali che fanno lo stesso lavoro con un divario di produttività che si sta rapidamente riducendo?
Tutto ciò porta a concludere che dalla crisi non si esce con semplici marchingegni monetari o fiscali, sui quali si colloca tutta l’attenzione dei cittadini e dei mezzi di informazione in queste settimane, o con la ricetta «magica» di qualche economista o qualche ministro dell’economia: per ottenere una crescita stabile e sostenibile occorre disegnare una struttura di redditi che lasci spazio alla crescita dei più poveri e che per i Paesi avanzati implicherà una riduzione dei divari a loro favore.