ALBERTO SINIGAGLIA, Tuttolibri - La Stampa 12/6/2010, pagina XI, 12 giugno 2010
NON FINISCE MAI IL MIO VOLO CON PERTINI
I Mondiali in casa Ghirelli, decano dei giornalisti sportivi italiani. Roma, Ponte Milvio, la distesa verde di Viale Tiziano. Ottantotto anni, due televisori in piena efficienza, un super apparecchio radio pronto nel caso si riaccenda la passione per la radiocronaca di una partita, fatta come si deve. Alle spalle un grande amore, trentatré libri pubblicati, la direzione di cinque testate - Tuttosport, Corriere dello Sport, Il Globo, Il mondo, Avanti! -, gli onori e le grane di portavoce del Quirinale con Pertini e di Palazzo Chigi con Craxi. Sul tavolo, Una certa idea di Napoli, il volume uscito in aprile da Mondadori. Poco discoste, le bozze di Una moglie incantevole, che Pironti stamperà in autunno.
Antonio Ghirelli, una partita dei Mondiali susciterà la febbre di Inter-Bayern?
«L’avvento della società post-industriale e della tv digitale ha attenuato l’interesse per il Mundial in favore della Champions. Con questa differenza: la Champions ha un’audience immensa, ma limitata sul piano sentimentale, mentre la Coppa del Mondo mobilita tutti i Paesi la cui federazione calcistica abbia aderito alla Fifa e sono più di quelli che siedono all’Onu».
svanito l’effetto Calciopoli?
«Il problema non è tanto la frode quanto il clientelismo nel calcio. Tutta una combinazione di favori reciproci, di timori, di carriere. Non credo ci sia stata una vera e propria corruzione, ma un imborghesimento: la trama d’una piccola borghesia negli appalti, nei ministeri e, purtroppo, anche nello sport più popolare».
Lei era con il presidente Pertini sull’aereo che lo riportava a Roma da Madrid dopo la vittoria italiana ai Mondiali di Spagna nell’82. Un ricordo di quelle ore?
«La foto nella quale re Juan Carlos guarda quel nonno trepidante. Pertini non era un tifoso, ma quella notte era impazzito di gioia. Ciò non tolse che durante il volo si scatenasse in un feroce scopone, in coppia con Bearzot. Al primo errore del partner i suoi urli fecero accorrere il pilota».
Se tra i tanti libri sul calcio ne potessimo scegliere uno solo?
«Il calcio, semplicemente. il bellissimo libro di un inglese, John Foot, tradotto da Rizzoli. Molto piacevole, non soltanto perché parla bene della mia Storia del calcio in Italia».
Perché con «Una certa idea di Napoli» ha rubato un titolo al generale De Gaulle?
«Perché Une certaine idée de la France mi era parso genialmente parziale, adatto a chiudere la serie dei miei libri aperta nel 1963 con Napoli sbagliata».
Sempre molto stretto e molto polemico il suo rapporto con la città in cui è nato.
«E dove mia madre mi ha trasmesso tutti i sentimenti, la poesia, l’amore di cui era capace. Ho sempre denunciato le debolezze, i difetti, i peccati della mia gente. Ma non l’ho mai fatto dall’esterno, come se non appartenessi, nel bene o nel male, alla sua storia. In quest’ultimo lavoro ho cercato di spiegare di che pasta sia fatta la napoletanità, il modo essere, di pensare, di amare, di parlare, di vivere e soprattutto di sopravvivere dei figli del Golfo».
Che cos’ha pensato quando Marco Borriello, napoletano del Milan, ha detto che Roberto Saviano «ha lucrato sulla mia città»?
« assurda l’accusa del giocatore. Saviano si è esposto, si espone. Il fatto che abbia successo è secondario. Vive sotto scorta, rischia la pelle. Semmai, bisogna domandarsi perché la magistratura - a quanto risulta - non abbia ancora svolto un’indagine sulla parte di Gomorra in cui si illustra il rapporto della camorra con grandi imprese del Nord e internazionali nello sfruttamento di poveri contadini meridionali che lavorano a domicilio e producono oggetti di lusso per quattro soldi. Se c’è un aspetto scandaloso, è questo».
Lei è stato anche un politico.
«No. Uno studioso della politica. Non ho mai fatto il politico militante se non una volta, negli Anni 80: mi presentai alle elezioni per il Psi, presi 41 mila voti e fui trombato perché il mio avversario Dc, presidente della Roma, ne rastrellò cinque volte di più».
Lo studioso della politica quando cominciò?
«A dieci anni già conoscevo le differenze politiche dei vari leader fascisti».
Ma la folgorazione?
«Venne con un saggio di Croce su Labriola, il più grande studioso del materialismo storico. Nel libro, che incredibilmente aveva oltrepassato la censura fascista, il filosofo aveva inserito il Manifesto di Engels e Marx. Un testo, a prescindere da ogni valutazione politica, talmente scoppiettante, entusiasmante, che divenni comunista e lo rimasi fino al ”56».
Fino all’invasione sovietica dell’Ungheria?
«Piuttosto fino al XX Congresso del Pcus e alle coraggiose ammissioni di Krusciov sugli errori e orrori di Stalin».
E da quel momento?
«Sono entrato nel movimento socialista, che ho servito come portavoce del presidente della Repubblica Pertini poi del presidente del Consiglio Craxi. Lottizzato nel 1985 dal Psi come direttore del Tg2 e andato in pensione poco più di un anno dopo, ho concluso la mia milizia come direttore dell’ Avanti!».
Segue ancora la politica?
«Adesso credo che siamo arrivati al punto più basso. Leggo Gramellini e condivido la sua feroce e affettuosa ironia. Non c’è più conoscenza della politica, di cultura politica non parliamo nemmeno. scomparso il buon gusto».
Resta almeno qualche appiglio nei libri?
«Quelli sono stati i miei appigli da sempre. Cominciai a dodici anni, quando uno zio mi regalò tutto Dumas».
Tra i romanzi di Alexandre Dumas i libri rivelazione?
«Piuttosto, Martin Eden di Jack London, la lettura che mi ha spinto a fare lo scrittore e il giornalista. Poi, Americana, l’antologia di Elio Vittorini. Più avanti, decisivi, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Gaetano Salvemini, Norberto Bobbio, Leo Valiani, specie con il suo Sessant’anni di avventure e battaglie: i liberi, e da me amatissimi, eretici della sinistra».
Il suo libro dei libri?
«Il Vangelo. Non sono credente, per nulla. Adoro Gesù come uomo. Ma considero Luca, Marco e Matteo il più grande esempio di giornalismo di tutti i secoli».
Che cosa sta leggendo?
«Un libro molto curioso di Nadia Verdile, Utopia sociale, utopia economica edito dall’associazione Danape. Racconta due esperimenti di socialismo utopistico del 700: uno in Scozia, uno vicino a Napoli, a San Leucio e a Caserta. Dove Maria Carolina - non il marito Carlo di Borbone, che era già passato in Spagna - varò un incredibile esperimento sociale nella famosa fabbrica di sete che si vedono ancora al Louvre o al Quirinale. Prodotti meravigliosi in un regime sperimentale nel quale lavorano, protetti, gli artigiani, le famiglie, persino i bambini».
Che tempo le resta per leggere i giornali?
«Per me sono come il pane, lo zucchero. Li leggo e mi arrabbio».
Perché si arrabbia?
«Per certi toni, per certi titoli, per certe sciatterie. Soprattutto per questa fuga verso il web. Mi fa paura: riguarda i giornali quanto i libri. Certo il progresso non si può fermare. E offre apparecchi comodissimi! Ma siamo sicuri che la più alta qualità del leggere non rimanga legata alla carta? Noi, leggendo, sfogliando, annotando, chiosando pagina dopo pagina, abbiamo imparato che cos’è la cultura, che cos’è la riflessione. Abbiamo imparato a pensare».
Sta rivedendo le bozze di «Una moglie incantevole». Può anticiparci che cosa racconta?
« una lettera d’amore a Barbara, che mi è stata crudelmente strappata dall’Alzheimer dopo sessantasei meravigliosi anni di solidarietà, di tenerezza, d’incomparabile amicizia. La sua morte ha chiuso la mia vita in un’irrefrenabile ondata di rimpianti e di lagrime».