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 2010  giugno 12 Sabato calendario

BAZOLI: MI-TO, BASTA POLEMICHE

L’appuntamento era per parlare di banche e fondazioni, per cercare di mettere un punto fermo dopo mesi di polemiche che hanno accompagnato la scelta del successore di Enrico Salza alla presidenza del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. Invece per quasi tre quarti d’ora Giovanni Bazoli mi parla di suo padre, deputato all’Assemblea costituente che comprava La Stampa per leggere gli articoli di Jemolo, e della passione che gli ha trasmesso per la Costituzione.
«Mio padre tornava a casa e ci raccontava i dibattiti dell’Assemblea, erano discussioni di altissimo livello, in quell’Aula c’era la migliore Italia del Novecento, che, anche grazie a un’efficace mediazione di ispirazione cattolica, riuscì a trovare una valida sintesi tra cultura liberale e progressista».
Oggi si propone di rivedere l’articolo 41 della Costituzione, che parla della libertà di iniziativa economica, sostenendo che non è più al passo coi tempi. Cosa ne pensa?
«Si può ammettere che il titolo dedicato ai "rapporti economici" risente dell’impostazione politico-economica di allora, quando i soggetti prevalentemente considerati erano il capitale e i lavoratori, mentre non trovavano adeguata tutela i consumatori. Ed è pure vero che mancano termini quali "impresa" e "concorrenza" e che la terminologia è datata. Ma è anche vero che ciò non ha impedito affatto l’avvento dell’economia di mercato e la nostra integrazione nell’Unione Europea, anzi li ha perfettamente consentiti. Perciò non penso che abbia senso modificare la Costituzione, su questo punto, solo per rinfrescarne i termini».
Presentando il suo libro "Chiesa e Capitalismo" ha però sostenuto che ci sono parti non attuate della nostra Carta e ha ricordato che è compito delle istituzioni ridurre le disuguaglianze.
«Ho detto, citando l’articolo 3, che se è vero che ogni uomo è liberamente artefice del proprio destino, è però compito dello Stato "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Io mi sento un cattolico liberale e questa è la lezione di un vero liberale come Einaudi. Rispetto a quanto scritto nel libro, oggi faccio un passo in più chiedendomi: "E’ un’eresia parlare di uguaglianza in campo economico?". Non penso, perché l’economia si regge tutta sullo scambio che ha come strumento fondamentale il contratto e perché la stessa concorrenza si basa su condizioni di parità. Pertanto è legittimo chiedere allo Stato di intervenire per ridurre le disuguaglianze dei punti di partenza».
Ma questa Costituzione non ha difetti?
«Forse potrei indicarne uno, che riguarda un tema oggi di grande attualità. Alla Costituente venne riproposta, ma con risultati limitati alla previsione dell’ordinamento regionale, quell’istanza di federalismo che già non aveva fatto breccia, un secolo prima, al momento dell’unificazione d’Italia. E dire che l’Italia aveva molte ragioni, nell’immediato dopoguerra, per riproporre quel tema, a partire dal fatto che l’esperienza fascista era stata facilitata dalla mancanza di garanzie e di contrappesi di potere. Si è così persa una seconda volta l’occasione per configurare l’Unità d’Italia secondo un’impostazione di tipo federale. Ora è evidentemente molto più difficile creare il federalismo partendo dall’unità».
Pensa che non lo si possa più fare oggi?
«Non ho cambiato idea sul federalismo: la mia formazione culturale mi induce a considerarlo un valore. Ma dobbiamo essere consapevoli che la sua attuazione, nel momento che viviamo, richiede grande coraggio e rigore. Non si può realizzare per compromessi e aggiungendo nuove entità a quelle già esistenti, ma sostituendo e tagliando. Solo così può avere successo, altrimenti avremmo solo costi aggiuntivi e insostenibili».
Bazoli è seduto nel suo ufficio torinese con grandi finestre su piazza San Carlo, guarda fuori e comincia a parlare della banca, ma subito si interrompe: «So che il modo in cui è stata gestita la questione delle nomine ha creato qui un diffuso sconcerto. A me piacerebbe invece invitare questa città a guardare avanti, per valorizzare lo straordinario patrimonio di risorse e di talenti di cui dispone».
Però prima bisogna partire dalle domande che tutti si fanno, sia sulle nomine che sulla fusione della banca; chi ha vinto e chi ha perso?
«Non ho alcuna difficoltà a rispondere. Stranamente a Torino si è diffusa l’opinione che la fusione alla fine abbia penalizzato la componente torinese rispetto a quella milanese, tanto che la delusione ha perfino indotto qualcuno a dirsi pentito di aver dato pieno appoggio all’operazione».
Non è vero?
«L’opinione che l’integrazione abbia svantaggiato Torino non è giustificata né dalle condizioni fondative della nuova banca né dagli avvenimenti che si sono succeduti da allora ad oggi. Per valutare in modo sereno vantaggi e svantaggi di una fusione devono sempre essere considerati due aspetti: il primo è il peso attribuito nel governo della nuova compagine agli uomini provenienti dalle due realtà precedenti, il secondo è l’impatto che la fusione produce nei territori di riferimento».
Sembra chiaro che è sul primo aspetto che si è innescata la polemica.
«Sì, ma mi pare che vada nettamente ridimensionata, perché il metro per misurare il successo di una fusione e il valore dei manager è uno ed uno solo: la capacità o meno dei manager stessi, che provengano dall’una o dall’altra parte, di raggiungere nel più breve tempo possibile una vera integrazione e di creare uno spirito di gruppo. L’unica strada per raggiungere questo risultato è la valorizzazione degli elementi migliori a prescindere dalla loro provenienza».
Quindi lei nega rilevanza alla provenienza dei manager?
«Non solo, ma aggiungerei che avrebbe ancora meno senso misurare i nuovi equilibri "di potere" in base al luogo di nascita o di residenza dei manager».
E per quanto riguarda il secondo aspetto, cioè gli effetti della fusione sul territorio?
«A questo proposito, Torino dovrebbe riconoscere di essere stata nettamente privilegiata dal patto fondativo, poiché questo ha attribuito ad essa, oltre alla sede legale, anche quella della banca dei territori, con le relative competenze annesse. In più è stata scelta Moncalieri come sede del centro informatico del nuovo istituto. Questi dati sono evidentemente di importanza cruciale, per le loro proiezioni future, nonché per le conseguenze sull’occupazione. Da questo punto di vista non posso fare a meno di osservare che i torinesi dovrebbero riconoscere al loro concittadino Enrico Salza il merito di aver tutelato al meglio gli interessi della sua città e dell’istituto che allora presiedeva».
Veniamo proprio a Salza e alle polemiche sul rinnovo del consiglio di gestione della banca. Lei ha davvero provato a mantenerlo alla presidenza?
«Sin dall’inizio ho detto che, se fosse dipeso solo da me, avrei visto con favore la conferma di Salza, non solo perché a lui sono legato da sincera e affettuosa amicizia, ma anche perché è stato con me uno dei principali protagonisti di quell’operazione di fusione che è risultata tra le più importanti per razionalizzare e rafforzare il sistema bancario italiano».
E poi cosa è successo?
«Ho ritenuto che fosse appropriato, nella mia funzione di presidente del consiglio di sorveglianza, inviare una lettera a tutti gli azionisti invitandoli a suggerire nomi di persone qualificate per il consiglio di gestione e la sua presidenza. L’invito è stato accolto da cinque fondazioni, le quali concordemente hanno segnalato come presidente il professor Beltratti. Noi consiglieri di sorveglianza abbiamo ritenuto - e penso che questo sia stato saggio e corretto - di tener conto dell’orientamento espresso da una così rilevante compagine di azionisti che nell’assemblea del 30 aprile rappresentavano il 58 per cento del capitale votante e hanno poi raccolto, attraverso le liste presentate, ben il 65 per cento dei voti. Abbiamo quindi verificato che questo candidato avesse tutte le qualità per rivestire la carica e non abbiamo avuto più alcun dubbio».
Ma in pista c’era anche il nome dell’ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco.
«Il nome che è arrivato dalla Compagnia di San Paolo era uno solo, quello di Beltratti, perché Siniscalco aveva ritirato in precedenza la propria disponibilità».
Alla fine il grande sconfitto è Salza. Pensa che le vostre strade torneranno a incrociarsi?
« uscito di scena con grande dignità, in modo esemplare e senza proteste. Mi auguro si possa ancora trovare un modo per valorizzare la sua passione e il suo impegno per la banca.
In questa vicenda, peraltro, la Compagnia di San Paolo si è fatta notare per l’alto tasso di polemiche che l’hanno investita.
«Premesso che non tocca a me giudicare quanto avvenuto, voglio comunque dare atto alla Compagnia di San Paolo di avere cercato e voluto trovare con le altre fondazioni una soluzione unitaria nell’interesse generale. Dato che parliamo di fondazioni, mi lasci qui aggiungere, più in generale, che le stesse sono state fondamentali nell’attuale congiuntura critica al fine di assicurare alle grandi banche italiane quella tenuta che gli istituti di altri Paesi hanno potuto avere solo ricorrendo a interventi pubblici. Oltre a ciò, in questo momento, bisogna riconoscere alle fondazioni di essere tra i pochi enti che sostengono la cultura (come a Torino risulta chiaramente dagli interventi delle due più grandi fondazioni operanti in città).
Ritiene superate le polemiche e chiuso ogni contenzioso?
«Mi lasci prima di tutto osservare che considerare i problemi in termini di contrapposizione tra Milano e Torino è del tutto errato e restrittivo, in quanto porta a trascurare la presenza del Gruppo Intesa Sanpaolo in tutti i suoi territori di rifermento. Basti pensare a realtà come Padova, Bologna, Firenze e Napoli e agli importanti radicamenti storici delle relative banche locali. Io mi auguro che d’ora in avanti si guardi soltanto a Intesa Sanpaolo, per valorizzare le potenzialità straordinarie che ha. In questo momento, tra l’altro, essa sta rendendo un grande servizio al Paese, sostenendo tutta una serie di realtà economiche e sociali, civili e culturali.
Prima lei diceva che Torino dovrebbe credere di più in se stessa. questa la medicina per superare le contrapposizioni storiche?
«Uno dei timori che mi confidava l’avvocato Agnelli negli ultimi tempi era che la città e il Piemonte finissero per marginalizzarsi non solo dal punto di vista geografico ma anche economico, finanziario e di potere. C’è un unico modo per ovviare a questo rischio: Torino deve aprirsi e integrarsi pienamente con le altre realtà italiane, portando in dote un patrimonio oggi raro e prezioso, quale è quell’attaccamento ai valori nazionali che i nostri presidenti Ciampi e Napolitano non si stancano di invitare a riscoprire. Iniziative come quelle degli ultimi anni (come, tra le altre, le Olimpiadi 2006, il rilancio internazionale della Fiat, la Fiera del libro) hanno dimostrato come i torinesi, con le loro risorse ideative e la grande capacità organizzativa, possano ritrovare una centralità nazionale e un prestigio internazionale. Le celebrazioni del 2011 saranno un’altra grande occasione da sfruttare in questa direzione».
Questo cambiamento che lei auspica non andrebbe accompagnato da un ricambio di classi dirigenti, oggi tra le più vecchie al mondo anche nel suo settore?
«Credo anch’io che occorra anche un rinnovamento generazionale. Per quanto mi riguarda, sono impegnato a garantire un percorso di questo tipo per la banca. La nuova generazione con uomini di valore come Passera, Beltratti e Morelli rappresenta già un’apertura incoraggiante in questo senso. Il rinnovamento del Paese non va però inteso solo in senso anagrafico: vedo tanti giovani rassegnati a un degrado che corrisponde a una rinuncia a valori e ideali. Dobbiamo riuscire a costruire un’alleanza generazionale innovativa, che favorisca una rinascita della coscienza civile degli italiani».