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 2010  giugno 12 Sabato calendario

LA TRIBUNA DEL DISONORE

Fermiamo l’immagine, subito, prima che i gol la annullino e la appannino: perché allo stadio di Soccer City, a Johannesburg, il simbolo del primo campionato del mondo africano era già pronto, nella cerimonia inaugurale. L’immagine simbolo è quella nitida di due Afriche accampate l’una vicina all’altra, come sempre. Purtroppo mischiate in un unico alambicco. C’era quella degli spalti, danzante, povera, musicale, inebriata di orgoglio ingenuo, di energia innocente; e c’era quella della tribuna d’onore, l’Africa dei notabili, delle elites corrotte e incapaci, laida, rancida, marchiata di scelleraggini. L’assenza di Nelson Mandela, forse l’unico padre della patria che in cinquanta anni di inutili indipendenze ha saputo riunirle, queste due afriche così lontane e incompatibili, ha aggiunto simbolo a simbolo.
In tutto il continente milioni di africani hanno guardato con orgoglio e invidia la cerimonia d’apertura, la sfida vinta di fronte al mondo. E l’hanno confrontata con le facce di coloro che si accaniscono a guidarli verso il futuro con mano di ferro e cercano di trasformarli a loro immagine. C’erano in questa platea i congolesi del Kivu che raccapricciano stritolati dalla più grande emergenza umanitaria della storia; gli ugandesi massacrati da un esercito di assassini che osa scrivere sulle proprie bandiere il nome del Signore; il popolo delle immense banlieue che lottano senza speranza con l’aumento del costo delle materie prime alimentari e sfilano a bocca aperta davanti ai palazzi dell’eldorado petrolifero di cui non condividono nemmeno una goccia; i somali costretti dal fanatismo a spiare il calcio di nascosto, rischiando le frustate.
Hanno visto in tribuna d’onore il padre-padrone dello Zimbabwe, Mugabe, leccarsi i baffi soddisfatto. Ne aveva ben ragione. La deprecazione e l’orrore universali non sono riusciti a scacciare questo Frankestein africano, incatenato a una poltrona scolpita nella miseria, nella corruzione, nella violenza folle, uno che ignora la parola rimorso. Deride gli interdetti delle diplomazie più potenti del mondo. Lo hanno invitato in Sudafrica, gli hanno steso il tappetto rosso, gli hanno offerto una platea planetaria. la complicità dei suoi colleghi africani: sanno di assomigliargli, di essere della stessa pasta, la sua caduta li indebolirebbe. Il sistema non deve perdere neppure un pezzo se vuole sopravvivere.
E poi c’era Winnie Mandela, il lato oscuro del Sudafrica, la pasionaria che un tempo da sola sfidava l’apartheid trasformatasi in strega: sospettata per l’omicidio di un giovane militante, intrigante, rapace, implacabile nell’odio, icona guasta che ha perso tutto, le cariche politiche, il marito, il suo onore.
Accanto a lei il mediocre Mbeki, il primo erede di Mandela, la sua svogliata caricatura: l’uomo che ha tollerato dietro le arie da intellettuale che il sogno si corrompesse, diventasse il pretesto di una classe che si riempe le tasche e ha adottato la boria e l’arroganza dei bianchi. Che ha firmato la condanna a morte di migliaia di connazionali negando l’Aids e ritardando la distribuzione dei medicinali. E Zuma, il nuovo presidente, che cita Mandela nei discorsi, e guida ormai un regime di fatto a partito unico, la antica maledizione dell’Africa, e che fa lampeggiare l’estremismo per tenere a bada la rabbia degli insoddisfatti che sono milioni. Una lezione che ha appreso da Mugabe, il suo ospite.
In prima fila, in tribuna d’onore, Desmond Tutu, l’arcivescovo della commissione di riconciliazione, danzava avvolto in una bandiera: lui le colpe dell’Africa che gli sedeva a fianco le ha denunciate a voce spiegata. Ieri non si è mai voltato. Per non vedere.