emanuela audisio, la Repubblica 12/6/2010, 12 giugno 2010
TUTTI ALLA BARACCA DI PIENAAR LA TOWNSHIP SALTA SUL MATERASSO
Nella parte che respira addosso a Soweto, che da qui appare un sobborgo borghese. Tutti a casa della zia di Steven Pienaar, numero 10 del Sudafrica, 50 presenze in nazionale, con i suoi amici di borgata, con i suoi ex compagni, prima che lui diventasse troppo bravo e loro troppo asini. Un altro Pienaar, dopo quello bianco, capitano della nazionale di rugby che nell´85 divenne campione.
Periferia estrema è già fare un complimento. Baracche a tre-quattro piani, inferriate al posto di porte e finestre, da carcere speciale, cocci di vetro a terra, immondizia sparsa, barattoli di latta arrugginiti come cassetta della posta, però anche casette con un po´ di giardino curato. Campi, non strade. Bocche sdentate, da dentisti picassiani, simil oro nei buchi. Chi è occupato guadagna 3 euro al giorno. Edifici popolari messi apposta con l´aiuto della chiesa. Una stanza affollata di letti a castello, cucinino, bagnetto. Sette o otto persone a camera. Niente acqua calda, niente riscaldamento.
Tutta la comunità è giù in cortile dove è stato trascinato un vecchio Telefunken su un carrello della spesa. L´Africa improvvisa con gioia la sua prima volta e figurarsi se non alza la voce. Qui il pallone salva dalla condanna. Per sopravvivere altri slalom, come fece la mamma di Aaron Mokoena, capitano del Sudafrica, che travestì il figlio da donna e scappò e scampò al massacro di Boipatong nel giugno 1992 (40 morti). La zia è fiera di Steven, indica la scuola dove ha studiato, il campo invece non c´è più, serviva ad una fabbrica. E´ un happening pasoliniano. Ci si siede su un materasso, i bimbi per terra, i ragazzi spipettano il narghilè e bevono birra. Vuvuzela a palla, non bastasse anche la Waka-Waka a tutto volume, da tortura di Guantanamo, e tutti sul decrepito materasso a ballare, saltare, urlare.
Oswald Ockers ha 32 anni, è elettricista in una compagnia di trasporti, ha due figli di 10 e 11 anni, si alza alla cinque di mattina e torna a casa alle sei. Ci tiene a dire che guadagna più degli altri. «Giocavo in porta e cercavo di parare i tiri di Pienaar, ma sono piccolo, lui ha avuto più fortuna». Non c´è nessuna invidia, solo ammirazione. «Steven non ci ha dimenticati, uno che cresce qui non volta le spalle, infatti torna a trovarci, fa salire i bambini in macchina, li porta a mangiare le patatine e poi li riporta a casa». Pienaar, che gioca in Inghilterra con l´Everton, qui è l´eroe. Appena tocca palla urlano, lo spingono, gli dicono dove deve andare, diventano indemoniati, alzano le braccia, crollano a terra, si rialzano, ricadono. Svengono appena il Sudafrica rischia il gol e resuscitano appena il portiere Khune evita la rete. Le ragazze scendono con le coperte. Jessica e Malesa hanno 23 e 22 anni, sono insegnanti di educazione fisica e ballo, curano altre due fratellini e vorrebbero che qualcosa restasse. «Finito il mondiale tutti ve ne andrete, spariranno quei pochi posti di lavoro creati per chi pulisce le strade e per far sembrare più bello il paese, non era meglio destinare un po´ di soldi all´educazione e non solo agli stadi? Anche perché se noi non controlliamo i bimbi finiscono nella droga e nelle bande».
Si alza il vento e anche l´odore di fumo, hashish. Dietro l´angolo c´è chi spaccia. Ruth 46 anni, lavora come operaia in una fabbrica di tessuti, Blanche, 29 anni, ha due figli, nessun marito ed è disoccupata. Ballano, scherzano, incitano, carne soda, non tremula. Nel cortile si convive e ci si fa di calcio. Il materasso è una piramide umana da "Cirque du Soleil". I bambini non smettono di suonare, i grandi di esaltarsi, Pienaar esce ed è come se se ne andasse a morire un parente. Ma al 56´ Tshabalala la butta dentro e la squadra si mette a ballare. Qui chi ha mai smesso? Quando il Messico pareggia qualcosa sembra spellare questa bidonville addobbata a festa. Urla da maiali sgozzati, sconforto e contorsioni. Ora sì che ci vuole il narghilè. I timpani sono andati, ma il Sudafrica batte ancora il suo tam-tam.