MICHELE SMARGIASSI, la Repubblica 12/6/2010, 12 giugno 2010
IL METRO DELLA CREATIVITA
Cosa farai da grande? Be´, la mamma ti vuole dottore o ingegnere. Il sindaco invece ti preferisce folksinger o designer di bigiotteria, perché ormai, crollati gli indicatori macroeconomici, è rimasto in campo solo questo metro di misura della prosperità di un territorio: il tasso di creatività, e bisogna incrementarlo. Creare creatività: imperativo vagamente insensato, o divino, un po´ come pensare il pensiero. Eppure, vedete: non c´è assessore all´innovazione sotto il più piccolo campanile che non abbia il suo progettino in merito: Cosenza, Parma, Milano, Padova, Piacenza, a Salemi Oliviero Toscani è stato "assessore alla creatività", a Firenze in ottobre c´è il Festival della creatività. Il 2009 è stato l´"Anno europeo della creatività e dell´innovazione".
Esiste dal 2008 un progetto dell´Anci e del governo per il "sostegno e la promozione della giovane creatività", e nel 2007 una commissione istituita per decreto ministeriale ha sfornato un Rapporto sulla creatività con relativo Libro bianco fitto di "ambizioni", "azioni" e persino "decisioni fondamentali" numerate in ordine di importanza.
Tutto per coltivare questa benedetta pianta dai frutti d´oro. Da quando, or sono otto anni, il sociologo di Toronto Richard Florida inventò la fortunatissima definizione di creative class e ne fece l´indicatore fondamentale della fortuna socio-economica di ogni comunità postindustriale, l´apertura di una discoteca gay o l´insediamento nel vicinato di una comune di ballerini smandrappati è salutata con l´entusiasmo che ai tempi della crescita si riservava all´aumento di uno zerovirgola del Pil. Lo stesso Florida, nel blog che tiene sul sito della rivista The Atlantic, continua a rispondere a lettori ansiosi di controllare il rango della propria città nella classifica del bohemian index (come tradurlo? Indice zingaresco? Indice fricchettone?), forse il più curioso degli indicatori di prosperità creativa inventati dal professore, basato sulla percentuale di scrittori, pittori, fotografi, stampatori, ballerini, eccetera, sul totale della popolazione. Funziona? Negli Usa, Los Angeles è prima in classifica, e va bene, ma la seriosa federale Washington è quinta, invece la patria del dixieland New Orleans terz´ultima, l´avreste detto? Il fatto è che le statistiche non sono molto zingaresche, calcolano solo i creativi di mestiere, con partita Iva, ignorando quelli che finito il turno in banca si mettono a suonare il banjo. Insomma partono già condizionate dal fattore che dovrebbero dimostrare (la ricchezza di risorse). Così in Italia Milano finisce per doppiare in punteggio la città bohemienne per eccellenza, Napoli.
In ogni caso l´idea sarebbe questa: dove ci sono vivacità culturale, inventiva, mobilità sociale e ribollire di idee e intensità di relazioni, c´è anche sviluppo economico. Indici per quantificare il fenomeno, i neo-economisti ne hanno escogitati ormai a decine. Da quelli più tradizionali che misurano il talento (percentuale di laureati e intellettuali) o le infrastrutture culturali (cinema musei radio) a quelli più intriganti come il coolness index che ci mette anche la vita notturna, agli indici di tolleranza e apertura mentale come il melting pot (qualità dell´integrazione di stranieri) o l´ormai celeberrimo gay index. Da qui la frenesia mondiale, vera e propria caccia al reclutamento del preziosissimo creativo: con operazioni urbanistiche, incentivi, finanziamenti per "attirare" la creative class nel proprio territorio. Per aumentare l´indice dello sviluppo più che lo sviluppo in sé. come comprare un container di termometri sperando di migliorare il clima di una località.
Forse è il caso di riflettere sul destino odierno di questa parola, creatività, bruscamente rapita dal tempio delle muse e ormai sequestrata nel laboratorio degli economisti. Curiosa storia davvero. I dizionari di un secolo fa non la registravano: il romanticismo conosceva solo il genio, dote squisitamente asociale. Nel lessico della sociologia americana creative e creativity sono apparse negli anni Quaranta. In Italia, pare che uno dei primi ad accettare il neologismo sia stato Benedetto Croce ("la perpetua creatività che è di tutte le forme spirituali"), e questo la dice lunga sulla lontananza del concetto da qualsiasi idea di utilità pratica. Nella nostra cultura nazionale la creatività sembrerebbe godere fama di virtù affascinante, fuori dalle regole (Zingarelli: «Capacità del parlante di emettere enunciati che prima non ha mai pronunciato»), ma un po´ superflua, gratuita, a volte sospetta. Nel nostro sistema scolastico, l´esaltazione della creatività pare ormai relegata al fondo della scala didattica: giochini da scuole materne di Reggio Emilia, dopo si passa alle cose serie. "Prima i fondamentali" è l´imperativo pedagogico della reazione ai presunti "danni della sperimentazione". Più matematica, più grammatica, più strutture solide della conoscenza nei programmi di studio. A "creare" ci si penserà dopo, comunque la creatività non si insegna. Come il coraggio di don Abbondio, o c´è o non c´è, è solo una questione di genio.
Ma è proprio così che vanno le cose? In Francia sembrano già pensarla diversamente. Da due anni l´Università Descartes di Parigi rilascia un "Diploma di educazione alla creatività" unico in Europa. Mesi fa un dossier di Le Monde de l´éducation sullo stato della scuola ha rispolverato polemicamente uno slogan del maggio, L´imagination au pouvoir, e dal 2005 il governo francese ha prescritto come contenuto minimo dell´insegnamento, l´acquisizione di un buon livello di «autonoma iniziativa e creatività». E anche a casa nostra, nei colloqui di selezione del personale una certa quota di originalità è richiesta e apprezzata. Nel mondo anglosassone non è una novità il ricorso dei manager al personal creative trainer, un allenatore alla vivacità mentale. E il gruppo sociale che ha sostituito i troppo seriali yuppies sono i bobos, acronimo di bohémian e bourgeois, zingari-borghesi che sanno mescolare eccentricità e competenze.
Insomma c´è stato un ribaltamento di senso. Se il tasso di creatività misuri davvero il successo di un territorio, non sapremmo dire. Ma sicuramente ha dato ai singoli creativi un peso contrattuale inedito, rivalutando economicamente il ruolo improduttivo del bohemien e rendendolo spendibile per il proprio successo individuale. E allora quell´indice, da metro del benessere collettivo, si fa misura della performance personale, da indicatore di salute del corpo sociale diventa strumento di carriera del corpo privato. Siamo ancora in tempo per coltivare un po´ di creatività diffusa, prima che la classe creativa di Florida si sciolga in una lotta darwiniana per la scalata individuale? E cosa registrano davvero oggi quegli indici, la vivacità globale di una società o solo il tasso di sopravvivenza dei più forti? Pochi giorni fa un sondaggio Swg per la Camera di commercio di Roma ha stabilito che «oltre il 75% degli italiani è dotato di forte spirito creativo», ma che «il 42% non riesce ad esprimerlo per paura di sbagliare o per mancanza di spinta». Sembriamo un paese di creativi timidi e pigri. Non saremo piuttosto frustrati e intimiditi da un paese che soffoca ogni entusiasmo con burocrazie, clientele, malaffare? Professor Florida, please, ci elabori urgentemente un killer index, per misurare quanto e dove si ammazzano le buone idee.