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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

GLI OPERAI CINESI VOGLIONO PIU’ SOLDI E COMINCIANO A OTTENERLI. MA IL REGIME HA PAURA DI QUESTE PROVE DI MERCATO LIBERO


Nel più grande paese comunista del mondo gli scioperi e le agitazioni sociali hanno smesso di essere notizie sorprendenti. Vi sono state in cina nel corso degli ultimi anni parecchie migliaia di proteste contadine, spesso violente. E nelle province, dove i distretti industriali sono particolarmente sviluppati, come quella meridionale del Guandong, il numero degli scioperi è aumentato nel 2009 del 42 per cento.
Ma quelli dell’industria giapponese Honda, nei pressi di Foshan, e della Foxconn, il maggiore produttore mondiale di componenti elettronici, meritano una certa attenzione. Il primo è durato quasi due settimane e si è concluso con l’offerta di un aumento salariale pari al 24 per cento, mentre il secondo, provocato da un ondata di suicidi, ha ottenuto aumenti del 30 per cento.
Le aziende sostengono che le agitazioni sindacali potrebbero ridurre considerevolmente le esportazioni della Cina verso i mercati mondiali e l’attrazione del territorio cinese per
gli insediamenti industriali stranieri. Però alcuni economisti osservano che queste osservazioni non corrispondono alla reale strategia delle imprese. Il costo del lavoro è ancora contenuto e rappresenta complessivamente una percentuale relativamente
modesta dei costi di produzione.
Molto più interessante invece è la reazione incerta, se non addirittura confusa, delle autorità centrali e provinciali. Le proteste contadine sono state quasi sempre duramente represse. Le agitazioni industriali, invece, hanno provocato interventi sporadici, raramente risolutivi. A qualcuno è parso addirittura che il regime preferisse stare alla finestra e attendere che gli operai e le aziende risolvessero il problema al tavolo dei negoziati.
 possibile che la protesta organizzata di masse operaie appaia, agli occhi dei dirigenti del partito, molto più preoccupante di una fiammata di rabbia popolare nell’angolo sperduto
di un immenso mondo rurale. Ma non è escluso che gli scioperi e gli aumenti salariali facciano parte di un fenomeno sociale che il potere centrale ritiene di potere tollerare o, addirittura, assecondare.
La Cina, in altre parole, potrebbe avere cominciato a fare pragmaticamente ciò che gli americani, preoccupati dal crescente squilibrio della loro bilancia dei pagamenti, le chiedono da molti anni. Se queste impressioni sono fondate, gli aumenti salariali degli ultimi mesi preannunciano una svolta che potrebbe dare luogo, nei prossimi anni, alla nascita di un mercato interno cinese.
Per molto tempo la Cina ha puntato sull’imbattibile potenza competitiva dei suoi prodotti e ha tratto grande vantaggio da due fattori: i bassi salari dei suoi operai e il valore della sua moneta, il renminbi, ancorata al dollaro. Alle insistenti domande di rivalutazione avanzate dal Tesoro degli Stati Uniti, Pechino ha risposto per molto tempo facendo concessioni modeste. Oggi le condizioni enomiche internazionali sono cambiate. Il dollaro ha riconquistato una parte del valore perduto rispetto all’euro e le maggiori economie ociddentali ridurranno verosimilmente sino alla fine della crisi le loro importazioni.
Per continuare a crescere e a produrre, la Cina, quindi, deve sviluppare il suo mercato interno. una politica da cui anche noi potremmo trarre vantaggio. Ma apre una fase delicata in cui i sindacati, oggi obbedienti alla linea del partito, diverranno più autonomi e combattivi. un passo, sia pure esitante, verso la democrazia: una prospettiva che a molti dirigenti appare piena di rischi.

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mito, diverranno più autonomi e combattivi. un passo, sia pure esitante,
mocrazia: una prospettiva che a molti dirigenti appare piena di rischi. •