Maurizio Ferraris, La Repubblica 11/6/2010, 11 giugno 2010
CRITICA DELLA RAGIONE POP
Il pop è ovunque, il pop ha vinto e non poteva non vincere, per lo stesso motivo per cui tutti indossano i jeans, dunque non stupisce che ci sia una pop filosofia. Personalmente lo considero un buon segno, perché nel pop vige il principio filosoficamente sacrosanto secondo cui non c´è nulla di intoccabile: nulla di così alto da non poter essere sottoposto a critica, e nulla di così triviale da rivelarsi immeritevole di considerazione filosofica. Nel sostenere questo, e nel riconoscere di aver fatto in più occasioni, e con convinzione, filosofia pop - e di voler continuare a farla - non mi sento affatto un avanguardista, semplicemente perché da molto tempo il pop ha cessato di far scalpore. Ricordo che ancora una ventina di anni fa un distintissimo (e solitamente illuminato) accademico storse il naso quando sentì Derrida citare in una conferenza, insieme al Diario moscovita di Benjamin, Back in the U. S. S. R. dei Beatles, ma già ai suoi tempi era un caso raro. Oggi le accademicissime Presses Universitaires de France hanno appena pubblicato la Philosophie du rock di Roger Pouivet, un filosofo analitico che a tutto pensa tranne che al fare scalpore con il suo tema.
Concepire il pop (e la sua filosofia) come avanguardia è a questo punto decisamente bizzarro, a meno che si voglia cadere nel sortilegio che ha portato alla costituzione, in Messico, del "Partito rivoluzionario istituzionale". Certo, la filosofia pop non può essere più vecchia del pop, cioè di un fenomeno che inizia nella seconda metà del secolo scorso, e che nasce dall´alleanza tra la cultura popolare e i mass media. Però da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e quello che forse è stato il primo filosofo pop, Arthur Danto interprete di Warhol, è oggi un signore di ottantasei anni. Ma non dimentichiamoci che l´interesse filosofico per il pop nasce da una duplice esigenza molto più antica. Da una parte, quella di fare una filosofia che possa essere capita anche dai non accademici, e che li possa interessare, come era per esempio l´idea settecentesca di una Populärphilosophie, teorizzata, tra i tanti, da Moses Mendelssohn che sulla Berlinischen Monatsschrift avviò il famoso dibattito sull´Illuminismo a cui prese parte anche Kant, per cui abbiamo in questo senso un Kant filosofo pop. Dall´altra, c´è l´idea della filosofia come enciclopedia, che è vecchia quanto Aristotele. Dunque, Aristotele che si occupa di tragedie è pop, Wolff è pop quando spiega l´intero scibile, compreso il modo di fare la birra, Diderot e D´Alembert sono pop quando rilanciano il progetto di Wolff con l´Encyclopédie. Il pop dunque è tra noi, è bene saperlo, ed è anche bene conoscerne i rischi.
Il primo è il conformismo. Nella società televisiva la filosofia pop è dilagata, e in qualche caso si è insegnata più televisione che Aristotele. Si può ben immaginare che all´inizio degli anni Sessanta, quando Umberto Eco, vero pioniere della pop filosofia, aveva proposto i suoi studi sulla cultura di massa, la communis opinio accademica avesse reagito con stupore e fastidio. Però una delle caratteristiche dell´accademia è la sua capacità di rinnovarsi. A volte anche troppo, se si considera che oggi in molti casi rischia di realizzarsi il detto di Don DeLillo in Rumore Bianco, secondo cui la sola cosa che leggono i professori sono le scritte sulle scatole dei cereali a colazione. Non c´è dunque da stupirsi se, sotto il titolo del pop, possano anche uscire opere modeste o conformiste, ma se è per questo ci sono delle opere spaventose o banali che sono state pubblicate sotto il nome glorioso della metafisica.
Un secondo rischio è l´autoinganno, che è l´ovvio risultato del conformismo di cui sopra. Ricordo che una volta, nella biblioteca di filosofia a Heidelberg, trovai i libri di De Crescenzo tradotti in tedesco; sono sicuro che lui sarebbe stato l´ultimo a farli mettere in un luogo così austero. Ma con la filosofia pop le divisioni non sono altrettanto nette. Immaginiamo allora che nelle università italiane si istituiscano delle cattedre di pop filosofia (nei dissennati tempi della riforma abbattutasi sull´università italiana ci si è andati molto vicino). Sarebbe un bene o un male per la filosofia e per l´università? Ovviamente un male, perché un conto è condurre una analisi filosofica di cose alte e di cose basse, un altro è passare il proprio tempo ad analizzare fiabe e telefilm. Insomma, l´idea è che se uno ha studiato la filosofia può capire il pop, ma se uno ha studiato la pop filosofia in effetti ha studiato solo il pop condito con un po´ di filosofia. Che è una vacanza intelligente, e un aiuto a capire un po´ del mondo in cui viviamo, ma non è niente di più di questo, e se ce la raccontiamo diversamente ci illudiamo, proprio come si sono illusi quelli che, quando io ero studente, stavano chiusi davanti a una moviola a fare analisi interminabili dei singoli fotogrammi di Johnny Guitar.
C´è poi un terzo rischio, a mio parere, ed è il più serio, e riguarda il legame, più profondo di quanto non si sia disposti ad ammettere, tra pop e populismo. Senza necessariamente rinvangare il pop nibelungico delle sfilate naziste, quale sarebbe il succo di un ipotetico volume su La filosofia di la pupa e il secchione? Forse "meglio un asino vivo che un dottore morto", il che è imbarazzante per la pupa non meno che per il secchione. La domanda è dunque, del tutto concretamente: non è che insistere sul pop finisce per assecondare l´anti-intellettualismo dilagante e dominante? Certo, il rischio c´è, eccome, e da questo punto di vista la filosofia pop finirebbe per presentarsi semplicemente come l´inverso della genealogia della morale: mentre il genealogista ti spiega che dietro a Platone c´è meschineria e banalità, il filosofo pop, che fa l´apologista, ti garantisce che dietro alla meschineria e banalità del quotidiano e del pecoreccio c´è Platone. E che poi, alla fine, il pecoreccio è meglio di Platone: "Smart may have the brains, but stupid has the balls", come nella pubblicità dei jeans.
Ora, i tagli alla ricerca a cui stiamo assistendo, e ancor di più le scarsissime prospettive e il bassissimo prestigio che offre oggi l´università rendono molto concreto il rischio che l´elaborazione teorica passi completamente in secondo piano, proprio per la mancanza di un luogo in cui svilupparla, e che il pop alleato al populismo si mangi la filosofia. Hegel ha detto che la filosofia è il proprio tempo appreso con il concetto, suscitando grande plauso dei filosofi pop, ma ha anche ironizzato sui rischi dell´anti-intellettualismo, di quelli che dicono "pensare? in astratto? Si salvi chi può!". La conclusione è molto semplice, e concorda in buona parte con quello che ha scritto Valerio Magrelli in La Repubblica del 26 marzo scorso: proporrei un Pop Up, che nella fattispecie non è il molesto avviso che sbuca sullo schermo del computer, ma l´idea di non giocare al ribasso. Facciamo pure la filosofia pop, ma al tempo stesso, magari, organizziamo una grande parata di Intellectual Pride. E soprattutto cerchiamo di salvare l´università come luogo di elaborazione del sapere accademico senza il quale, alla fine, nemmeno il pop ha alcun senso.