Roberto Beretta, Avvenire 11/6/2010, 11 giugno 2010
CAVOLI NOSTRI: DALLA PINA A FAR LA SPESA
La Pina è laureata eppure coltiva la terra. La Pina fa la contadina nell’area più industrializzata d’Europa: la Brianza; da sola e puntando sul biologico. Sempre più difficile! Che del resto Filippina Alagia (Pina è il diminutivo dietro cui si celano origini meridionali) non si lasci smontare facilmente si nota a vista d’occhio: è trent’anni che tiene testa al mercato e alle sue bizze, comprese quelle un po’ ideologiche e modaiole che oggi vedono l’agricoltura praticata nature come assoluto intoccabile, ma anche a quanti (marito incluso, piccolo imprenditore brianzolo doc) la esortano a smetterla con le fatiche da bracciante. Peraltro lei da contadina non ha nemmeno le mani, solo un poco più abbronzate del viso; e si presenta agli appuntamenti con tailleur e zeppe, mica zoccoli... «Imprenditrice agricola»: infatti si definisce così e non perché aborrisca termini più terra terra, ma perché lo è sul serio. Nel 1981, appena laureata in Scienze della produzione animale, Pina ha pensato di applicare in pochi ettari di collina a Besana Brianza l’esperienza della mamma: la quale non aveva mai fatto mancare alla famiglia i prodotti dell’orto e gli animali da cortile. Così ha messo in piedi dapprima un piccolo allevamento di oche, conigli, galline e fattoria varia, poi si è riconvertita alla coltivazione di ortaggi. Non erano gli anni del boom ecologista, allora, tanto meno nella Brianza delle fabbrichette, e contrastare la logica del supermercato (frutta e verdura di serra alla faccia delle stagioni, chimica a go-go per salvarne la buccia) non dev’essere stato semplice. La convinzione di partenza era peraltro forte: «Ho sempre voluto che le famiglie potessero mettere in tavola le stesse cose che mangiavo io»; dunque qualità e salute. La Pina va avanti per tentativi sul campo – è il caso di dire ”, ma senza paraocchi. Per lei il biologico è scelta davvero «naturale», nel senso che è quella che le sembra più logica. Diserbanti? Non ce n’è bisogno, se si usa la pacciamatura: ovvero si coprono le zone non destinate alla vegetazione con appositi tessuti-non-tessuti. Insetticidi?
La prevenzione spesso può evitarli, basta fare un giro quotidiano nelle colture per spiare sulle pianticelle eventuali assalti di parassiti ed estirpare subito i fusti contaminati... Prove su prove anche nel commercio. Una che coltiva e regge l’azienda da sola, per esempio, non può certo permettersi di tenere aperto 8 ore al giorno uno spaccio dei suoi prodotti, né d’altra parte di essere continuamente interrotta mentre è china sulle zolle per vendere tre pomodori e qualche zucchina ai clienti che s’avventurano senza orari alla ricerca di ortaggi genuini.
Allora la Pina inventa la borsa della spesa: una volta alla settimana prepara i suoi sacchetti con i generi di stagione, in quantità mirata al consumo di una famiglia, carica il furgone e la sera fa il giro a distribuire a domicilio. «All’inizio le persone erano un po’ perplesse: ’Non posso ordinare per telefono la verdura che voglio?’. No, prendere o lasciare. Poi però, siccome consegnando direttamente avevo modo di annotare gusti e preferenze di ogni acquirente e così potevo calibrare la borsa delle settimane seguenti, il successo è stato clamoroso. Con lo spargersi della fiducia e il passaparola, sono arrivata a 200 borse della spesa alla settimana; e ho dovuto fermarmi lì solo perché non sarei riuscita ad accontentare altri». Fiducia: un ingrediente più fondamentale del concime, per l’attività della Pina; «Io ci metto la faccia, sia quando produco sia quando vendo »: la filosofia del «naturale» comincia dalla verità di se stessi. Di conseguenza l’imprenditrice brianzola non ha temuto di affrontare persino i tabù del biologico, quando ha ritenuto che fosse giusto farlo, e per giunta nel periodo in cui – da cenerentola del mercato – il settore era ormai diventato un business da leccarsi i fatturati; soprattutto per un’azienda come la sua... Invece proprio allora la Pina ha smesso di produrre biologico.
Come mai? «Anzitutto perché dovevo scegliere: o coltivare, o fare l’impiegata a tempo pieno. Ormai la quantità di scartoffie e burocrazia imposta dalle varie certificazioni è tale che non riuscivo a stare al passo. Senza contare che si tratta solo di carta e a mio parere il consumatore non ne ricava una sicurezza effettiva: sì, il produttore attesta di aver rispettato severe norme biologiche; ma chi controlla davvero, chi fa le analisi? Nessuno.
E allora che garanzia ne viene al cliente? Tanto più che gli enti certificatori sono pagati dai produttori stessi...». Insomma, come piantare una cipolla a testa in giù: un controsenso. Ma la Pina ha un altro motivo da mettere a coltura: «Io credo al biologico, però non sono mai stata contro la tecnica. La mia formazione è scientifica: se puoi curarti coi rimedi della nonna, benissimo; se però hai la polmonite e rischi di morire, devi prendere gli antibiotici. Lo stesso avviene in campagna; gli antidoti naturali sono preziosi, ma a volte non bastano. Dalle mie parti ci sono piogge acide che – lo so con certezza – faranno ammuffire tutto il raccolto di pomodori e un rimedio naturale, poche storie, non esiste. Che cosa faccio, allora? Uso la chimica adatta. Certo: solo trattamenti mirati e al bisogno, in piccole dosi (non possiedo nemmeno il patentino agricolo per usare certi veleni di livello superiore), non le campagne massicce e indiscriminate di pesticidi che si usano nell’agricoltura industriale. Però ho scelto di non sposare nemmeno un divieto assoluto dei mezzi artificiali». E – miracolo! – la Pina, che ha spiegato la scelta ai suoi clienti, ciò nonostante non ne ha perso neppure uno...
Merito della solita fiducia, conquistata sul campo. «Ci sono colleghi che mi strizzano l’occhio: pure noi facciamo come te, ma poi cosa ti costa mettere una firma, sistemare un’etichetta? No, non ci sto. Se il fine del biologico è sapere che cosa metti nel piatto, mentire (anche in piccola parte) è una contraddizione intollerabile». Non solo i suoi cavoli: è genuina anche la Pina.