VITTORIO ZUCCONI, la Repubblica 11/6/2010, 11 giugno 2010
CORAGGIO AFRICA FINALMENTE SI GIOCA
Negli ultimi momenti di un silenzio che rimpiangeremo, sospeso tra la notte del concerto popolare e l´esplosione delle trombe di plastica nello stadio di Johannesburg, un miliardo e cento milioni di africani si sono messi in cammino, per l´inizio di un Mondiale di calcio dove non giocano squadre di pallone, ma un continente intero. Soltanto 50 o 60 mila privilegiatissimi tra di loro lo raggiungeranno, mescolati fra i 95 mila spettatori venuti anche da altri mondi, ma dentro la enorme pentola di acciaio, cemento e vetro costruita da una società olandese, dove Messico e Sudafrica disputeranno la partita d´apertura e farà una breve, fragile apparizione Nelson Mandela, ci sarà il cuore di un continente che ha trovato in un semplice gioco inutilmente complicato l´illusione del riscatto.
Persino i concierge e i portieri d´albergo, ovunque disposti ad accontentare ogni desiderio più o meno lecito dei clienti di portafoglio generoso, mi rispondono con aria offesa e forse sincera che a Johannesburg non c´è in vendita neppure un solo biglietto al bagarinaggio. Non c´è prezzo che valga il poter dire "io c´ero", all´avvenimento irripetibile di una vita. Ci sono naturalmente già state rapine e furti su turisti, tifosi messicani, giornalisti greci, coreani e tedeschi, qui dove la media delle vittime di morte violenta è di 50 al giorno e la società di protezione e allarmi domestici più apprezzata si chiama "Proteas Coin" e offre ai gentili clienti "Risposta Armata" contro ogni intruso, altro che vagiti di sirene e chiamate a pigri centralini. Ogni turista, ogni visitatore straniero ha già potuto sperimentare il collasso delle telecomunicazioni a bande troppo strette per il fiume di telefonini, portatili, chiavette, sim e la premurosa, commovente incompetenza degli addetti in maglietta gialloverde e degli steward.
Neppure il dio palla e i suoi tronfi signori della Fifa scarrozzati su limousine possono trasformare l´Africa nel Liechtenstein con un fischietto o con uno stadio tanto meticolosamente e simbolicamente progettato da avere voluto nove pilastri di acciaio orientati nella direzione delle altre città africane sede di incontri e il decimo indirizzato verso l´Olympia Stadion di Berlino, come una preghiera alla Mecca del mondiale passato. Tra un mese, quando la Coppa sarà assegnata, i bambini del Soweto o dello Swaziland, i profughi del Darfur, i diseredati delle terre rubate dall´uomo bianco ai Bantu, agli Xhosa, agli Zulu come furono rubate ai Lakota, agli Cheyenne, agli Irochesi, agli Aztechi, ai Maya, continueranno a giocare, se sono fortunati e nessuno gli spara o li mutila con una mina, passandosi palle di stracci legate insieme da corde. I due milioni e mezzo di afflitti dal virus dell´Aids soltanto in Sudafrica non guariranno, certamente non grazie a un sistema sanitario pubblico che non esiste e deve essere l´unico al mondo che offre un´assicurazione privata sulla salute chiamata "Funeral", mentre rimane difficile trovare umili e preziosi preservativi nei supermarket, anche nell´abbondanza dell´offerta di sesso da strada.
Ma questo è il primo evento africano non cruento del quale finalmente il mondo si interesserà, non per provare pietà effimere, per lanciare verbose iniziative di pace o per offrire prediche moralistiche condite da qualche sacco di riso. Se questa coraggiosa, corale, entusiastica, incompetente fino alla tenerezza, organizzazione che fa indossare a semplici posteggiatori di automobili fiammanti gilerini gialli con la solenne indicazione "Parking Ambassador", ambasciatore del "tutto sotto dotto´" e ha moblitato duecentomila guardie per fare la guardia alle guardie, resisterà all´assalto dei quasi tre milioni di appassionati e gli sguardi dei due miliardi di telespettatori che la osserveranno dal mondo, l´Africa avrà vinto il suo Mondiale. Anche se nessuna delle sei squadre del continente, i Bafana Bafana, i ragazzi del Sudafrica, Nigeria, Algeria, Ghana, Camerun and Costa d´Avorio raggiungessero la finale o addirittura mettessero le mani su quella Coppa, la vittoria della dignità sarebbe un trionfo.
E´ un´ironia un po´ crudele - perché la crudeltà della storia in queste terre è una cliente abituale - il fatto che proprio nelle ore in cui questa meravigliosa processione di persone in corpo e in spirito cammina dall´alba verso lo stadio costato la cifra mostruosa di sei miliardi di dollari, le nazionali africane siano tutte in un momento di bassa marea tecnica, che neppure la presenza possibile di alcuni assi da esportazione, come il camerunense Eto´o o l´ivoriano Drogba, riesce ad alzare. Nessuna di esse è presa sul serio dai bookmaker, meno ancora dell´Italia di Lippi in caduta di pronostici. Soltanto Pelè, il primo campionissimo di sangue africano sotto bandiera brasiliana, dice di credere, per abituale cortesia e per un pizzico di piaggeria, che una di queste sei possa vincere.
L´elogiato "calcio con la pelle scura" che negli ultimi mondiale aveva prodotto commenti e articoli benevolmente sorpresi, come se appunto i formidabili giocatori brasiliani di colore fossero indigeni del Rio delle Amazzoni e non africani, ha perduto molto della propria forza e della capacità di produrre altri campioni per la mietitura dei club milionari europei troppo ingordi o troppo frettolosi per allevare grandi purosangue in casa propria. Le storie di pullman di giocatori presi a fucilate, di federazioni con le casse sfondate dai farabutti che dovrebbero invece coltivarle, di cesti di acqua per la squadra offerta ai compagni dai nazionali che lavorano in Europa, come Drogba o E´too, di tasca loro, sono normali, dal mondo del calcio africano. E se il calcio ricorda ovunque e troppo spesso l´antico circo organizzato per distrarre i sudditi, l´uso di questo sport, dall´Egitto di Mubarak al Sudan, come diversivo popolare è spesso sfacciato, quando non è soltanto un bussolotto di elemosine per gli amici dei dittatori e dei regimi.
Eppure tutto questo sottofondo melmoso, se non sanguinoso, della grande festa che comincia oggi, non riesce a sporcare il giorno nel quale il corpo ormai stanco e prezioso di Nelson Mandela farà un´apparizione messianica nella cerimonia d´apertura. Porterà, su scala infinitamente più solenne, quella stessa emozione, e quel significato di storia umana, che un vecchio e tremante Mohammed Alì, superstite e poi vincitore dell´odio razzista americano, portò nello stadio di Altanta, all´apertura del 1996, accendendo il braciere olimpico. Con il Mondiale anche l´Africa vuol dire al mondo: "Yes, we can". Buona fortuna.