FILIPPO CECCARELLI, la Repubblica 10/6/2010, 10 giugno 2010
DA PERTINI ALLA LEGA
Lo scatto del vegliardo presidente al gol italiano, l´esultanza di Sandro Pertini allo stadio Bernabeu: «Non ci prendono più! Non ci prendono più!», insiste a gridare rivolgendosi al re Juan Carlos mentre con la mano fa il gesto di addio.
Scrisse in quell´estate del 1982 una rivista yugoslava, Politika, che il presidente della Repubblica era stato «il dodicesimo giocatore in campo». Non solo, ma quando l´aereo presidenziale riportò a casa i vincitori del Mundial e la tv mostrò agli italiani quella celebre partita di scopone in volo fra la coppia Pertini-Causio contro Bearzot e Zoff, ha ricordato poi in un suo libro il consigliere diplomatico del Quirinale Michelangelo Jacobucci (Pertini uomo di pace, Rizzoli, 1985) che in tutta Italia s´impennarono le vendite dei mazzi di carte.
Fino ad allora i potenti democristiani s´erano ben tenuti alla larga dalla Nazionale e da quei luoghi di travolgenti emozioni che sono gli stadi. plausibile che fosse un modo di marcare una differenza con il regime fascista, che invece senz´altro incoraggiò le vittorie calcistiche negli anni Trenta, traendone indubbio profitto come dimostrano le foto degli azzurri fanno il saluto romano. A questo proposito, ce n´è quanto basta in termini di ricerche e testimonianze per prefigurare una drammatica corrispondenza fra la celebrazione dei successi della squadra di Vittorio Pozzo e la voglia di guerra, che di lì a poco in effetti divampò. Fatto sta che De Gasperi, e poi Fanfani, Andreotti e gli altri sempre si astennero dall´uso della Nazionale. E allora forse non è un caso che a pochi giorni dal numero di Pertini a Madrid, un altro laico, Spadolini, fu il primo presidente ad affacciarsi a sorpresa da Palazzo Chigi per salutare i caroselli della folla festante. Che subito ricambiò quel gesto – con immane soddisfazione di Giovannone.
Dopo di che, una volta entrati nell´epoca dello spettacolo, del consumo e della politica pop, la nazionale è ormai da considerarsi come prezioso totem, oltre che inesauribile giacimento di consenso. Ma non per tutti: vedi l´atteggiamento neghittoso della Lega che con sospetta intermittenza (buon ultimo il figlio di Bossi) nega il proprio sostegno agli azzurri.
Va da sé che specialmente funziona, questo interesse di palazzo, se e quando la nazionale vince: altrimenti la scorciatoia della popolarità indotta e i meccanismi di identificazione rischiano di produrre dannose ripercussioni; così come è almeno dubbio che a ministri o presidenti arrechi dei vantaggi intervenire polemicamente sulla formazione o sulle disposizioni tattiche: dopo la sconfitta in finale agli europei del 2000 Zoff si dimise contro una pesante entrata a piedi giunti di Berlusconi, allora leader dell´opposizione, a proposito della marcatura di Zidane.
Impossibile a questo punto dimenticare che si deve soprattutto al Cavaliere la vera svolta post-ideologica che ha "calcistizzato" la politica, forma e sostanza, pure trasfigurando le antiche pratiche di partecipazione dal basso, la battaglia delle idee e perfino gli scontri tra i militanti in un complessivo consumo di talk-show da parte di spettatori non praticanti e tuttavia acerrimi tifosi.
Tra il 1993 e il 1994 – esemplare caso di parassitismo predatorio ed efficace riciclaggio di codici – Berlusconi aveva del resto battezzato il suo partito Forza Italia: e c´era allora nello statuto anche il punto esclamativo. Ma negli spogliatoi degli azzurri vincenti all´Olympia Stadion di Berlino, nel 2006, fu Giorgio Napolitano a lanciare il brindisi, pure a costo di prendersi schizzi di aranciata in quella gioiosa confusione.