MARINO NIOLA, la Repubblica 10/6/2010, 10 giugno 2010
QUELLA PATRIA INTERMITTENTE
Passione sub condicione per una Nazionale senza nazione. Un paradosso antropologico prima ancora che calcistico, che fa dell´Italia una patria intermittente. Amata se vince rinnegata se perde.
Si può dire che il tifo per la nazionale sia la declinazione pedatoria del trasformismo italiano. E della sua atavica inclinazione ad accorrere in aiuto dei vincitori. All´inizio dei mondiali nessuno si scopre, si parte con cinismo e disincanto e l´attaccamento alla bandiera monta progressivamente dopo ogni vittoria. Un atteggiamento a metà fra esorcismo e scaramanzia. Niente cambiali in bianco, niente passione cieca, niente amore sviscerato. Tutti sentimenti riservati alla squadra del cuore, quella che ci fa piangere abbracciati ancora. La Nazionale invece l´affetto del suo pubblico deve conquistarselo partita dopo partita. E ad ogni mondiale deve ricominciare daccapo, a suon di risultati per riuscire a convincere gli Italiani a fare e tifare l´Italia. Come se la patria rimanesse la maggior parte del tempo in panchina e scendesse in campo solo ogni quattro anni. Quando è chiamata a mostrare quel che vale sotto lo sguardo impietosamente critico di sessanta milioni di commissari tecnici. Pronti a mostrare il pollice verso alla prima sconfitta. Ma anche a scendere in piazza al primo golletto di rapina. In questo senso il tifo per la nazionale è il termometro del rapporto che gli Italiani hanno con la nazione. Con un´identità collettiva, con una coscienza unitaria che non hanno mai smesso di far problema. Anche perché gli Italiani, con i loro caratteri e caratterini, si sono fatti molto prima che si facesse l´Italia. infatti almeno dai tempi di Dante che le divisioni tra gli abitanti dello stivale pongono altrettanti problemi di quanti ne pone la loro unità.
Mentre in Inghilterra la Nazionale viene prima di tutto, nella buona e nella cattiva sorte. Sugli spalti tedeschi il grido Deutschland über alles risuona possente qualunque sia il risultato. E l´intero Brasile esulta e piange incondizionatamente per la Seleçao. Da noi invece l´Italietta di Edmondo Fabbri, reduce dal disastroso mondiale d´Inghilterra del 1966, quando la rete di Albertosi fu trapanata da Pak Doo Ik, presunto dentista coreano, fu accolta all´aeroporto di Genova da cori irridenti e lanci di ortaggi.
Forse proprio per questa astenia patria il nostro paese ha sempre bisogno di campioni. Di eroi vittoriosi in grado di fare anche per gli altri. E di sollevare il morale e le sorti della collettività. Dai tre Orazi che sbaragliano i Curiazi, ai tredici che scendono in campo contro i francesi nella disfida di Barletta, ai trecento di Pisacane, fino ai mille di Garibaldi. Che sono moltissimi al confronto dei tredici cavalieri di Ettore Fieramosca, ma restano comunque un´inezia rispetto al totale degli Italiani. Campioni nel senso letterale del termine, di una parte che rappresenta una totalità spesso evanescente. Come fu per gli undici dell´Azteca, che suscitarono una fiammata di orgoglio nazionale e nazionalistico. Anche perché lo strenuo quattro a tre inflitto alla Germania di Beckenbauer al termine di un´epica semifinale era molto più di uno score agonistico. Era la resa dei conti con i Tedeschi, era la Resistenza che finiva ai supplementari grazie a Rivera, il partigiano Gianni, autore del gol della Liberazione. Eppure i protagonisti di quella tenzone, che una stele all´ingresso dello stadio messicano ricorda come la partita del secolo, furono fischiati al ritorno dopo aver perso, invero dignitosamente, la finale con il galattico Brasile di Pelé.
Insomma, anche nel calcio l´Italia deve fare i conti con gli Italiani. E con il loro patriottismo ad assetto variabile.