VITTORIO ZUCCONI, la Repubblica 10/6/2010, 10 giugno 2010
ORGOGLIO E SOLITUDINE SBARCA LA NAZIONALE
In questo altipiano vuoto e freddo così stranamente simile alle praterie del far west americano, è sbarcata la Nazionale della solitudine, la squadra di uomini che non lasciano impronte. L´Italia calcistica è sola come non è mai stata nella propria storia.
La nazionale non è riscaldata questa volta neppure da scandali, polemiche, accuse o attese e nel cuore di questa solitudine c´è Marcello Lippi, il generale di 62 anni che sa in cuor suo di non poter vincere la guerra, ma assapora il gusto impossibile di una vendetta contro chi l´ha già disconosciuta. «Non accadrà, ma se dovesse accadere, questa volta non li faremmo salire sul pullman dei vincitori».
Quelli lì sarebbero i politici, i leccapiedi, i governanti, le loro eccellenze, e buona parte del pubblico che sembrano essere tutti già scesi dal carro dei perdenti designati, perché questa è una Nazionale di facoltosi orfani, che nessuno, in Italia, sembra voler adottare. Neppure quei mitici «connazionali all´estero» che qui in Sudafrica sono troppo pochi per fornire almeno il simulacro di calore che persino in Giappone le ragazzine che gridavano «Totiiiii Totiiiiii» all´uscita degli allenamenti, offrivano. Non ci saranno cortei di auto verso Dortmund o Parigi in caccia di biglietti o figli delle antiche Little Italy negli stadi americani. La squadra del console Marcello nella sua solitudine non bisogno di centrocampisti, fantasisti, difensori centrali o terzini di spinta, avrebbe bisogno di genitori adottivi.
Sembra persino simpatico, e quasi fa tenerezza, quel Lippi che quattro anni or sono, nelle ore tossiche della vigilia tedesca, avvelenate dal caos di Calciopoli, sprizzava l´energia nervosa di chi giocava la parte del condottiero solo contro tutti, il torneo delle Termopili. Nel guardarlo rispondere a noi giornalisti, mentre si massaggia insistentemente un ginocchio sinistro che forse gli duole da antiche botte, si avverte un´ombra di fatalismo, di accettazione che fatica a nascondere dietro le frasi di circostanza di ogni allenatore o sportivo. «Mica sempre vince la squadra più forte tecnicamente», riflette, che suona come un´ammissione della scarsa forza tecnica dei suoi.
Trasferirsi da una Johannesburg già travolta da un´agitazione febbrile che invade le strade al gelido fortino degli italiani disperso alle frontiere del nulla, accentua questa sensazione di estraneità, di isolamento, quasi di casualità. Saremmo i campioni del Mondo, ma non si vedono tifosi italiani per le strade della città, neppure nella vicina Pretoria, la capitale, o nel quartiere di Irene, la pace, dove stanno i giocatori. Sono due mondi, quello surriscaldato, vibrante del Sudafrica che sta affidando troppe speranze al miracolo del calcio, e quello freddo dei ritiri sull´Hoheveld, l´altopiano a Nord, che soltanto adesso la paura e la speculazione immobiliare che costruisce quartieri lager fortificata per i bianchi in fuga comincia a rosicchiare. «Sono ancora più pimpante e motivato di quattro anni fa», cerca di farci credere Lippi, mentre il suo "body language" i gesti, le espressioni, i movimenti del corpo raccontano una storia diversa, quella di un uomo che si era pentito di aver lasciato l´unico mestiere che sa fare bene e forse ora si pente di essere tornato a farlo. Di questa Nazionale della Solitudine Azzurra importa pochissimo ai locali, che la ignorano preferendo quelle più eccitanti e vivaci, il solito Brasile, l´Argentina del folle Maradona che vorrebbe escludere Milito, il Messico chiassoso, prima avversaria che potrebbe pungere il pallone della grande illusione arcobaleno, gli inglesi o gli olandesi, gli antichi padroni e tormentatori. Ma dell´Italia senza stelle o primedonne, ti vengono chieste notizie soltanto per ospitalità cortese. Anche il solito, trito rituale della «formazione», che giornalisti e Lippi recitano, sa di vecchio, surgelato. «Non ve la darò mai, la formazione», ma lo dice sorridendo, senza la rabbia del custode di segreti arcani che avevamo visto in Germania.
Si vive, e lo sa lui, lo sappiamo tutti, il crepuscolo di una storia che la prima partitella d´allenamento giocata proprio nel tramonto rende visibile, la fine di un´avventura sportiva amareggiata dallo sprezzo ostentato per la partenza di una spedizione alla quale nessun pezzo grosso sembra volersi associare, dopo l´immancabile salto sul carro, cioè il pullman, di quattro anni or sono. «Eppure c´erano mille tifosi a salutarci alla Malpensa, invece dell´unico solitario amico mio che venne a salutarci a Pisa nel 2006» dice Marcello il Pensoso, l´inedito poeta della rimembranza, prima di correggersi, come i dati della Questura, «forse ottocento, settecento...». Sarebbe delizioso, e soltanto per questo si merita il tifo, se, contro ogni ragione e previsione, l´Italia del pallone vincesse anche questo titolo, soltanto per vedere l´esercito degli opportunisti respinto dal carro, ma questo Lippi che parla di «fare il possibile», di «acquistare fiducia nei propri mezzi cominciando a vincere» non lascia ottimisti. Come sorprende il suo distaccato filosofare tra le «occasioni d cogliere» e la «bellezza delle ore che precedono la partita, la preparazione, più che quei 90 minuti», un Lippi gozzaniano - leopardiano che riflette sulla vita.
L´Italia degli orfani del calcio in cerca di genitori adottivi, rappresenta un calcio che ormai considera gli italiani come riempitivi nelle formazioni che non possono permettersi reggimenti sudamericani, est europei, africani e questo il pubblico, anche qui in Sudafrica dove il Mondiale è l´occasione che capita, dice lo slogan ufficiale, «una sola volta nella vita», lo sa. Difficile emozionarsi e farsi scoppiare i polmoni nelle infernali trombe di plastica per Cossu o Criscito, Bocchetti o Maggio, che i superclub con soldi da bruciare non hanno voluto. Ma sì, ma dai, sorride il generale nella sua solitudine «lo sapete anche voi, lo avete scritto, lo sanno tutti che questo è quanto offre il calcio italiano e non abbiamo lasciato a casa campioni di tecnica straordinaria». Lo sappiamo. Lo avete voluto questo calcio, è il messaggio che l´inedito «Mellow Marcellow», come lo chiama un giornalista inglese stupito, questo Lippi morbido manda dal fortino nella terra che i bianchi rubarono agli Zulu e ai Bantu, e adesso non potete fare finta che sia figlio di altri o di nessuno. Ingrata patria non salirai sul mio carro. «Io non sono per niente nervoso, non ho la sensazione di quella cappa di piombo che ci gravava sulla testa quattro anni or sono quando affrontammo il Ghana, e mi sudavano le mani».
Neppure si accorge che mentre lo dice, strofina le dita sul tavolo della conferenza stampa e guarda la superficie, per vedere se sia macchiata di sudore, se almeno questa traccia sarà lasciata dalla Nazionale della solitudine.