Luca Telese, il Fatto Quotidiano 9/6/2010;, 9 giugno 2010
FESTA DELL’UNIT O FESTA DEMOCRATICA? QUESTO IL PROBLEMA
Ora su Facebook è nato persino il gruppo ”Rivogliamo le feste de l’Unità”. Tiè. Ha solo 52 aderenti, ma c’è. Alla faccia del senatore Lucio D’Ubaldo (ex margheritino) secondo cui ”si dovrebbe lavorare tutti alla festa dei democratici per essere rivolti al futuro e non al passato”. E della vicesegretaria del Pd romano, Serena Visintin, che non ha dubbi: ”Bisogna abbandonare vecchie nostalgie e confontarsi su un terreno nuovo, come nuovo è il partito in cui siamo confluiti”. Quelli delle salsiccie. C’è, in questo ennesimo strascico di guerra nominale, l’eterno riverbero del problema identitario del Pd. Dirigenti che litigano, innovatori che scalpitano, nostalgici che rimpiangono, abitudini che resistono: ma sotto c’è il dilemma di sempre. Malgrado le denominazioni variabili il prodotto che si vende è lo stesso, i militanti che stanno dietro i fornelli a cuocere le leggendarie salsicce sono sempre quelli che si sono formati tra gli anni ”60 e ”70 nel Pci. Orrore pop. Ne ha subiti di torti, la gloriosa testata ispirata al nome che volle Antonio Gramsci. Molti ricordano ancora il terrificante manifesto ”nu ov i s t a ” con cui fu annunciata una delle feste più importanti, a Roma: il nome era ”Democratic party”, e il logo ufficiale un bicchiere di aperitivo con un’olivetta dentro. Una iconografia così fighetta che i giovani yuppies degli anni ”80 si sarebbero ribellati. Un altro anno - la festa negli spazi del vecchio mattatoio - lo slogan era ”Al mattatoio mi diverto un macello”. Tentativi - maldestri - di essere pop, di darsi un’aria moderna giocando con i simboli. Cambiare per aprirsi? ”Io sono perché il nome sia Festa Democratica - esordisce subito Lino Paganelli - l’uomo che regge la responsabilità della macchina organizzativa che sostiene l’uni - ca struttura di massa seria rimasta in piedi a sinistra. Paganelli è una sorta di manager rosso con una esperienza ormai antica. Basterebbe dire che è resistito nella sua responsabilità a ben tre diversi leader: i segretari passano, lui resta in sella. Eppure spiega: ”Il 90% delle feste, tranne alcune eccezioni a Bologna e a Siena, ha scelto autonomamente il nuovo nome. Se i militanti non fossero stati d’accordo avrebbero tenuto il vecchio, no?”. Gli chiedi perché cambiare, e lui lo spiega così: ”Il problema è se dare o meno un segnale di apertura a persone che vengono da altre storie”. Difesi dagli ex missini. Vero. Ma la questione è complessa. E’ curioso che ogni l’estate, lo spettro delle feste, e la polemica sulla loro identità torni a danzare sulle pagine dei giornali. Quest’anno, per dire, la festa di Roma - che per tradizione pianta le sue tende a Caracalla - è stata combattuta dalla soprintendenza ai beni culturali (che non voleva dare il permesso) e difesa da Federico Mollicone, dirigente di An, nonché ex leader della storica sezione del Fronte della gioventù di Colle Oppio. Un segno dei tempi? Denominazioni assurde. An - che a sinistra, però, non tutti sono d’accordo. Buona parte di quel 10% citato da Paganelli, è concentrato a Bologna e dintorni. A difesa del vecchio marchio, per esempio si è schierato il capo delle pagine emiliano romagnole de l’Unità, Onide Donati con un editoriale di fuoco: ”Ba - sta con denominazioni assurde senza storia e senza memoria. Sappiamo che il Pd è ancora un’incompiuta – ha scritto – ma chi ha pensato di farlo cancellando il nome di una festa ha peccato di ingenuità”. Le feste nacquero nel 1946, come adattamento nazionalpopolare del modello francese dell’ Humanité. Divennero evento nel 1948, con la mega festa organizzata in onore di Togliatti. Da tre anni hanno un altro nome: ma se la gente continua a dire ”Vado alla festa de l’Unità”, un motivo ci sarà pure, o no?