Ugo Tramballi, Il Sole-24 Ore 9/6/2010;, 9 giugno 2010
QUEGLI ITALIANI CHE FECERO L’IMPRESA
Oggi è un cimitero militare in mezzo a una campagna silenziosa, anche se nessuno dei 264 sepolti è caduto in battaglia. Dal luglio 1941 al maggio del ’47 qui attorno c’erano le tende, l’ospedale e i 25 campi da calcio del più grande concentramento di prigionieri di guerra in Africa. Passarono di qui 108.885 soldati italiani. E alla fine 870 di loro decisero di restare: sarebbero stati di più se le autorità bianche di allora non avessero voluto preservare l’essenza protestante del paese. comunque con "i ragazzi di Zonderwater" che inizia l’emigrazione italiana che negli anni 80 avrebbe creato una comunità di 80mila persone.
Gli italiani c’erano anche prima. Nella storia sudafricana sono come quei parenti lontani invitati a un matrimonio e che appaiono in ogni fotografia: in seconda fila, ma la loro faccia salta sempre fuori. Ci sono i valdesi fuggiti in Olanda dopo la revoca dell’Editto di Nantes e imbarcati con gli ugonotti per il Capo di Buona Speranza, nel XVII secolo: i Malan, i Lombard, i Botta poi diventati Botha. C’è una Teresa Viglione, mercante al seguito dei boeri nelle prime guerre zulu del 1838. Cinquant’anni più tardi un gruppo di piemontesi combatte con gli afrikaners nel conflitto anglo-boero e Peppino Garibaldi, nipote di Giuseppe, sta dalla parte inglese. Ma i liberi profes-sionisti affermati, le circa 3.500 imprese italo- sudafricane di oggi- soprattutto costruzioni, alimentare, meccanica trasporti e turismo, come spiega Mariagrazia Biancospino, segretaria generale della Camera di commercio italo-sudafricana - sono idealmente figli di Zonderwater. Anche se molte cose sono cambiate.
Orange Grove, attorno a Johannesburg, una volta era il quartiere degli italiani. Oggi i loro negozi li hanno presi i nigeriani. Gli italiani si sono trasferiti a Bedford View, ma non Pierluigi Porciani, 83 anni, e la redazione de La Voce, il settimanale del quale è il direttore e che tira 5mila copie. «Qui la sera potevi mettere fuori dalla porta i soldi con la bottiglia di latte vuota e la mattina dopo la ritrovavi piena. Oggi non è più così. A noi italiani piaceva l’ordine e la disciplina di quegli anni». L’orientamento conservatore della Voce è chiaro dalla prima pagina con una foto di Emanuele Filiberto e il giovane Vittorio Emanuele «in occasione dei 150 anni di unità d’Italia, voluta dai Savoia». Porciani si limita ad assecondare i desideri dei suoi lettori: in generale gli italo-sudafricani sono sempre stati di destra.
Gli italiani del Sudafrica oggi sono circa 60mila, quelli che conservano anche un passaporto italiano meno della metà. Delle circa 3.500 imprese aperte, solo 131 sono associate alla Camera di commercio italo-sudafricana.
Ci sono poi 21 imprese italiane, 28 branch sudafricane d’imprese italiane e 20 sudafricane senza presenza italiana. Nelle medie camerali non sono poche, ma i numeri aiutano a capire l’ineluttabile distacco dalle radici di tutti gli emigranti. Quaggiù le incertezze della situazione politica ed economica spingono ancora molti italiani a tenere il passaporto d’origine. In Australia vi rinunciano subito.
«Credo che dipenda più dal problema della sicurezza che da altro: chi ne ha la possibilità cerca di conservare un passaporto e una casa in Italia», dice Giovanna Secco, italiana nata in Australia e residente in Sudafrica dove ha trovato marito nella dinastia dei Giuricich. il prototipo dell’emigrata moderna: il cuore a Belluno da dove è partita la famiglia, ma anche in Africa dalla quale non ci si può staccare facilmente. Giovanna Secco è una farmer bianca, possiede 60 ettari a papaia, noci e canna da zucchero vicino a Nelspruit, al Nord. Come per tutti gli agricoltori bianchi del Sudafrica, anche sulla sua proprietà pende la richiesta di esproprio delle comunità locali nere. «Se ti dicono che fra due anni perderai le gambe non puoi smettere di camminare adesso – spiega ”.Noi la vediamo così. Sono i nostri 450 dipendenti neri che ci chiedono di non mollare».
«Morti in prigionia, vinti nella carne, invitti nello spirito», dice con inevitabile retorica il monumento di Zonderwater. Se avessero potuto, nessuno dei 100mila italiani avrebbe voluto venire qui. Molti di loro hanno poi deciso di restare, perché è così che va la vita. Emilio Coccia, emigrato a 26 anni in Africa, 40 anni fa, ogni martedì viene a Zonderwater, a prendersi cura del cimitero e del suo piccolo museo «solo perché non si dimentichi». Una buona parte dei "ragazzi" è sepolta qui. Ne restano ancora in vita cinque a Pretoria e una decina a Johannesburg. Quando moriranno, i figli, i nipoti e tutti quelli venuti dopo di loro saranno solo sudafricani per scelta, italiani nel ricordo.