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 2010  giugno 09 Mercoledì calendario

PRIVACY, ECCO COSA GOOGLE SA DI TE

Da qualche parte, nei server di Google sparsi per il mondo, c’è la raccolta delle ricerche fatte da ciascuno di noi, la pubblicità su cui ha cliccato, le preferenze sui siti web visitati, i messaggi di posta, le foto, i testi dei blog. Così come ci sono altre informazioni che Google, da buon motore qual è, trova in rete e fa proprie. Ci siamo noi, insomma, anche se spesso non c’è il nostro nome. C’è da preoccuparsi? Non necessariamente. Lo scopo della raccolta delle informazioni è di fare prodotti e servizi più utili, così come di offrire ad aziende e agli utenti un campo comune di comunicazione attraverso la pubblicità. La preoccupazione è comunque lecita, però, per due motivi. Il primo riguarda qualche scivolone in cui il motore è incorso ogni tanto (si veda l’articolo in basso), il secondo è la mancanza di chiarezza per gli utenti.
Sugli scivoloni c’è poco da fare: Google li ammette e cerca di correggere il problema ex post nella maggior parte dei casi. Ma come dice il suo stesso ceo Eric Schmidt, opera con la filosofia del «prima lancia, poi correggi» per poter innovare, e ciò comporta necessariamente errori. Sulla chiarezza e la correttezza sta invece cercando di migliorare, anche perché proprio questi scivoloni stanno facendo emergere una maggiore coscienza critica negli utenti, oltre ad attirare l’attenzione delle varie authority. Certo, da gigante qual è potrebbe sicuramente fare meglio. Ieri a Milano Alma Whitten, componente del Privacy Council di Google, ha spiegato come sia difficile adottare soluzioni che rispettino le legislazioni sulla privacy nei diversi paesi, e ha sottolineato come un feedback immediato da parte degli utenti sia necessario per correggere il tiro. Vedi le foto di Street View in cui non sono celati i volti (eliminabili su richiesta). Nessun commento, invece sulla raccolta di dati (frammenti di e-mail, documenti ma presumibilmente anche dati bancari) dalle reti private fatta attraverso le auto di Street View che dovevano solo fotografare. Google ha ammesso l’errore e avviato un’indagine interna, per cui la cosa è in mano agli avvocati. No comment anche sulla condanna da parte del tribunale italiano per il video dello studente autistico picchiato dai compagni.
Ma quali sono i dati che si regalano a Google normalmente, scivoloni a parte? Whitten ha spiegato che si possono dividere in tre gruppi. Il primo è quello dei cosiddetti log data: tutte le volte che si fa una ricerca o si visualizza una pubblicità di Google, il motore prende nota. Si appunta l’indirizzo Ip (che identifica il modem da cui si sta navigando), il tipo programma che si usa (il browser), il sistema operativo del pc, l’identificativo del cookie (il piccolo documento che Google memorizza nel computer dell’utente come traccia e non contiene granché), e ovviamente si appunta anche la ricerca fatta, per esempio «case al mare». Non c’è il nome dell’utente. Durata di questi dati: dai 9 ai 18 mesi.
Il secondo scatolone di dati che Google tiene in casa non viene messo in relazione con il precedente, spiega la Whitten, e si capisce come mai: è lo scatolone in cui vanno i dati di coloro che sono registrati a Google (per la mail, per esempio) quindi là c’è il nome e cognome oltre a tutto il resto. In questo gruppo c’è quanto si vuole condividere con Google, ci si iscrive volontariamente, insomma, cosa non necessaria per fare le semplici ricerche. Inutile dire che quanto più l’utente è ignaro di quello che fa perché non legge i contratti e i termini del servizio, tanto più si espone a un possibile uso distorto dei propri dati, non solo con Google. Che gli attori del web debbano rendere più chiare le condizioni è un discorso equivalente (Google a dire il vero ci ha provato anche con i video, www.google.com/privacy).
Infine il terzo scatolone, i dati che arrivano dalla rete (nelle mappe, nei social network...) e che la società di Mountain View raccoglie tramite il proprio motore.
Cosa fa Google di tutti questi dati? Whitten spiega che servono per tre scopi: dai dati delle ricerche e dal click successivo dell’utente si capisce quali sono i risultati di maggior valore e quindi quelli che devono magari salire di posizione. Google impara dai cosiddetti bravi ragazzi. Analizzando le ricerche, però, impara anche a come tenere a bada i «cattivi ragazzi», utenti o computer che cercano di manipolare i risultati del motore a proprio uso e consumo. Infine, Google usa questi dati per «inventare il futuro», vedi il servizio di traduzione in tutte le lingue nato dalle ricerche e non da un dizionario o quello di monitoraggio dell’influenza ottenuto grazie all’incrocio dei dati storici con le ricerche fatte nei diversi periodi.
Inutile dire che Google usa tutte queste informazioni anche per servire all’utente pubblicità ritagliata sulle proprie preferenze: se nei giorni precedenti l’utente ha visitato siti sportivi, facile che mentre legge le notizie su un giornale partner di Google appaia un banner di una marca di abbigliamento sportivo. Un servizio, sicuramente, sia per le aziende sia per i consumatori interessati in determinati prodotti, che però potrebbe non piacere a molti. Per questo nei banner del proprio network, Google ha inserito un bottone con su scritto «Ads by Google», cliccato il quale si può decidere che il motore non deve servire più pubblicità guardando nel proprio computer oppure che gli argomenti preferiti sono ben altri. Certo, se al posto di «Ads by Google» ci fosse stato scritto «Scegli tu questa pubblicità» il passo avanti sarebbe stato più chiaro.