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 2010  giugno 09 Mercoledì calendario

LITTLE ITALY TIFA AZZURRO

La prima cosa che noti è una scritta fatta con i sassi, ammonticchiati sul crinale di una collina di terra rossa: «Zonderwater». Poi vedi uomini neri con una sgargiante tuta arancione, che tagliano l’erba all’ingresso. Allora tutto torna: sono galeotti, perché dove un tempo c’era il più grande campo di prigionia per italiani, oggi c’è un enorme penitenziario sudafricano. Del passaggio di 109.000 soldati, fra l’aprile 1941 e il gennaio 1947, è rimasto un cimitero militare con 264 anime sepolte, oltre a una montagna di ricordi indelebili. Li conserva con passione Emilio Coccia, dell’Associazione ex prigionieri di Zonderwater, che si raccomanda: «Ci aspettiamo tante visite durante il Mondiale, perché questo è il sacrario dell’italianità in Sudafrica. Avere la Nazionale qui è un sogno, ognuno riscoprirà le proprie radici: non deludete chi ha custodito nel cuore per decenni la memoria del suo paese lontano».
Custodire la memoria significava innanzi tutto sopravvivere, a Zonderwater. Il primo che ci morì fu Michelangelo Campisi, di Nicotera, il 25 maggio 1941. Dodici prigionieri furono uccisi dalle guardie: «Non stavano scappando. Le guardie - racconta Coccia - erano ubriache, e facevano scommesse su dove li avrebbero colpiti. Tanto la punizione per chi ammazzava un italiano era una multa di 10 sterline». Si moriva nei modi più assurdi: «D’inverno arrivavano i temporali. All’inizio i prigionieri stavano nelle tende, tenute su dal palo centrale d’acciaio: un conduttore perfetto. Carlo Caradonna e Giuseppe Faragi, due amici di Alcamo, furono ammazzati da un fulmine il 4 gennaio 1942, proprio mentre preparavano la fuga».
Chi non aveva simili velleità si era industriato a sopportare il filo spinato. Nei nove chilometri quadrati del campo c’erano 16 terreni da calcio, e ogni anno si giocava il campionato. A Zonderwater stampavano quattro giornali, «Tra i Reticolati», «Il Punto», «La Carretta» e «L’Attesa», nato proprio per pubblicare le cronache delle partite. Il torneo del 1944 lo vinsero i «Diavoli Neri», superando all’ultima giornata il «Savoia». La «Roma», disgraziatamente, finiva sempre ultima. C’erano anche sette sale di scherma dove si allenava Ezio Tricoli, che dopo la guerra avrebbe aperto una scuola in Italia diventando il maestro di tanti campioni, inclusa Valentina Vezzali. Si tirava di pugilato, e il match più famoso avvenne l’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio. Il campo si divise proprio come l’Italia: da una parte il campione monarchico Giovanni Manca, che nel 1949 avrebbe strappato il titolo italiano dei pesi medi a William Poli, e dall’altra il fascista irriducibile Gino Verdinelli. Almeno loro, dopo essersi pestati sul ring, a fine match si abbracciarono.
Terminata la guerra, quando il miraggio del ritorno divenne realtà, circa 2.500 prigionieri fecero domanda per restare in Sudafrica: non avevano affetti o lavoro in Italia, dove temevano un’accoglienza ostile. Vennero accettate 870 richieste, fra cui quella del cantante lirico Gregorio Fiasconaro. A Città del Capo divenne famoso come direttore d’orchestra, in Italia invece è solo il padre di Marcello, che fece il record mondiale degli 800 metri indossando la maglia azzurra. Fu accettato anche lo scultore Edoardo Villa, che a 95 anni d’età ricorda così la sua scelta: «In Sudafrica ho trovato l’America, era il mio posto».
Altri trovarono l’amore, o quanto meno ne lasciarono le tracce: «Non sapete - racconta Coccia - quanti figli di prigionieri ho riunito ai padri. La storia più incredibile è quella di una signora ebrea che voleva tanto un bambino ma non riusciva a concepire. Tentò l’adozione, ma non ebbe fortuna. Allora chiese al marito il permesso di concepire con un prigioniero, di quelli che potevano uscire per lavorare nelle fattorie: tanto alla fine della guerra sarebbe andato via. Scelse Dante Mezzadri, di Roma. Una mattina d’inverno, verso le due, ricevo una telefonata da Boston: era il figlio della signora, emigrato dal Sudafrica durante l’apartheid. In punto di morte la madre gli aveva raccontato la verità, e lui ora voleva ritrovare il vero padre. Lo aiutati e fu un miracolo: il padre era morto, ma a Roma trovammo le sue sorelle. Storie italiane, da non dimenticare».