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 2010  giugno 09 Mercoledì calendario

L’ULTIMA GRANDE FUGA DI JACK

James Garner è Bob Anthony Hendley, tenete dell’aviazione e «un ladro» che si procura attrezzi per costruire il tunnel, documenti falsi e divise tedesche.Era il 24 marzo del 1944. Di notte. E Dio solo sa se facemmo sanguinare il naso ai tedeschi». Se n’è andato l’ultimo superstite della Grande Fuga, si chiamava Jack Harrison, aveva 97 anni, e la sua parte, nel film di John Sturges girato nel 1963, non l’avevano assegnata a nessuno anche se il suo vicino di branda, nella baracca dello Stalag Luft III a pochi chilometri dal confine con la Polonia, era Roger Bushell, detto Big X, l’uomo che progettò e diede vita alla più straordinaria evasione di massa mai concepita in un campo di concentramento. «Roger era fisicamente diverso da Richard Attenborugh che lo interpretò al cinema, ma era esattamente quel tipo di uomo: un gigante». Sono successe molte cose nella vita di Jack Harrison, ma nessuna è stata come quella. Lo Stalag allora.
Era un campo della Luftwaffe destinato agli ufficiali inglesi e americani studiato appositamente per evitare evasioni. Tra le baracche e il filo spinato, sorvegliato dalle torri, decine di metri di terra sabbiosa, morbida, difficle da scavare, seminata di microfoni destinati all’ascolto di qualunque rumore sospetto. Oltre il recinto, prima del bosco, altri cinquanta metri di terra piatta. «Tutte le mele marce prigioniere nello stesso cesto», il motto dei tedeschi.
Harrison, insegnate di latino alla Dornoch Academy, allo Stalag c’era arrivato nel 1942. Pilota della Raf, era stato catturato alla sua prima missione, mentre cercava di bombardare la Germania. Colpito, caduto, furioso: «non si può volare così male». Sistemato nel blocco 109, pochi giorni dopo faceva parte del complotto per far fuggire 200 prigionieri attraverso tre tunnel scavati nel terreno, dribblando i microfoni e correndo il rischio di restare schiacciati dalla sabbia.
Nel film di Sturges con Steve Mc Queen pilota di una mitica Triumpph Bonneville riverniciata di nero, il dialogo tra il colonnello Von Luger, responsabile del campo, e il maggiore Ramsey, responsabile dei prigionieri alleati, è geniale.
«Bene maggiore Ramsey, in quattro anni di guerra il Reich è stato costretto a impiegare una grande quantità di tempo e di uomini per rintracciare gli ufficiali prigionieri fuggiti dai campi».
«Fa piacere sentire che ci tenete tanto a noi».
«Non la prenda alla leggera. Le assicuro che non ci saranno fughe da qui».
«Colonnello, lei sa che come tutti gli ufficiali, abbbiamo il dovere di tentare». Musica di Elmer Bernstein e applausi imperituri.
Harrison, che nella foto in bianco e nero di quei giorni ha folti capelli neri, baffetti, pantaloncini corti e persino una elegante cravatta, su questo botta e risposta ha sempre riso parecchio. «Quella era gente cattiva. Ma che noi volessimo fuggire era chiaro come il sole». L’organizzazione fu capillare. Tutti dovevano scavare, poi la terra veniva nascosta nei pantaloni e ridistribuita nel piazzale facendola scivolare dalle gambe. Come nel film, esattamente così.
La notte del 24 marzo tutto fu pronto. Harrison, vestito da elettricista, con in tasca documenti ungheresi, doveva uscire per novantottesimo. Quando il settantasettesimo uomo passò dal tunnel che arrivava a otto metri dal bosco, i tedeschi diedero l’allarme e inziò l’inferno. Harrison bruciò i documenti, cambiò vestiti e salvò la pelle. Dei 77 uomini fuggiti solo tre arrivarono a casa. Cinquanta furono ripresi e fucilati dalla Gestapo su ordine di Hitler. Gli altri furono riportati al campo. «Ma nessuno li aveva mai umiliati fino a quel punto».
La liberazione arrivò nel 1945. Harrison andò a Glasgow, dove aveva conosciuto la moglie Jean. Il loro primo giorno l’ha raccontato così: «Era una donna superba se decidono gli occhi». E’ la poesia di Jack, che poi era la sua vita. I figli, Chris e Jane, oggi dicono: «lo consideravano tutti un eroe, per noi era un credente, un professore, un atleta e un uomo che amava gli altri». Le ultime estati sono state alla Erskine, casa di riposo per ex militari. Il maggiore Jim Pantom, direttore dell’istituto, ha letto l’elogio funebre: «è stato un onore averlo conosciuto». E per coprire la tomba si è lasciato scivolare la terra dai pantaloni. La sera prima di andarsene, Jack Harrison, ultimo superstite della Grande Fuga, ha accesso gli occhi di un azzurro insensato: «Lo sapete che vi ho voluto bene, no?». Si è alzato capendo che stavolta dal tunnel sarebbe riuscito a passare. Si è spento dolcemente, pensando a notti senza neanche una foglia tra il suo cranio e il cielo. Libero. Per sempre.
James Coburn impersona l’ufficiale di volo Louis Sedgwick. lui il «falegname» che con lastre di legno rafforza le pareti degli scavi sotterranei al campo di prigionia. Richard Attenborough è Roger Bartlett, la «mente» del piano. Charles Bronson è Danny Wilinsky lo «specialista di gallerie». Solo Wilinski riuscirà a scappare e imbarcarsi.