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 2010  giugno 06 Domenica calendario

SAHARAWI, LA TRIBU’ CHE NON C’E’

Nel campo profughi di Miyek, sul confine incerto tra l’Algeria e quella terra di nessuno che sono i «territori liberati» saharawi, le lunghe ore centrali della giornata, così calde da sconsigliare la vita all’aperto, sono scandite dal rito tipicamente sahariano del thè, ripetuto fino all’ossessione. Nel caldo da sauna riverberato dal tetto di lamiera si beve e si ribeve, osservando ogni volta come ipnotizzati il movimento agile delle mani che versano, travasano e infine offrono un minuscolo bicchiere. Tre giri ogni volta. Il primo è amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore, il terzo soave come la morte. Il detto popolare qui suona alla perfezione. E’ amara la vita di chi aspetta da 35 anni un sempre più improbabile ritorno alla terra dei padri in uno degli angoli più inospitali del Sahara.
Per sentirsi un po’ a casa i profughi hanno dato ai campi gestiti dall’Onu i nomi delle loro province ora diventate proprietà marocchina. El Aiun, Auserd, Smara e Dahla. E i nomi dei paesi e delle città, e i ricordi di una terra che aveva davanti l’oceano e le oasi e i pascoli e campi da coltivare. Nelle scuole fanno plastici che sembrano piccoli presepi per ripercorrere quella storia di nomadi felici, e non dimenticarla. Ma sono ricordi sempre più lontani perché da allora, dal 6 novembre 1975, dalla Marcia verde che li ha cacciati o resi sudditi del Marocco, è passato oltre un quarto di secolo e tanti sono nati qui e conoscono solo questo orizzonte di baracche e di tende: capre magre che spesso restano vittime dei sacchetti di plastica sparsi un po’ ovunque scambiati per cibo, qualche cammello, negozi rudimentali e incredibili orticelli ricavati tra le dune e protetti da muri di sabbia.
Ci sono famiglie che sono state divise e non si incontrano da allora, fratelli separati, nonni che non conoscono i nipoti, dice Jomeini, un ragazzo che ha la fortuna di poter frequentare l’università in Italia eppure torna qui appena può perché i saharawi sono gente testarda che non si arrende mai e spera, cocciutamente, nella terra promessa.
Non stanno male, pensa il visitatore occidentale che è qui per una settimana. Secondo parametri africani hanno abbastanza: scuole, ambulatori, cibo. Persino una discoteca, una capanna segnalata da ghirlande di lucine dove i ragazzi fanno finta di vivere come i loro coetanei globalizzati. Sono celiaci, sì, la più alta percentuale di celiaci al mondo. Ma accade a chi, pastore da secoli, non è abituato al glutine e si trova per 35 anni a campare con i sussidi di emergenza dell’Onu. Farina, riso, lenticchie, arrivano i camion a distribuire e si fa la fila. Tremila tonnellate ogni mese. Ed è un evento in un posto dove non succede mai nulla.
Andando avanti, nel deserto dell’hammada, che in arabo significa morte, senza vita, estinto, si trovano le oasi dei territori liberati. Le abitano pochi pastori con il loro bestiame anche se in confronto ai campi profughi sembrano l’Irlanda. Hanno paura i saharawi di questo territorio che non appartiene ad alcun Paese e dove ogni tanto piovono bombe e scoppiano mine. Se qualcuno muore qui chi può rivendicarlo? Già nessuno ascolta la storia dei prigionieri politici, dei digiunatori, dei ribelli, dei dissidenti che in terra marocchina cercano di far sentire la voce dell’indipendenza.
Più in là c’è il muro, detto della vergogna, che delimita la zona annessa dal Marocco. Sono 2.400 chilometri di fortificazioni, un milione di euro al giorno pagati dalla Ue, otto caserme dell’Onu nei territori liberati che costano 46 milioni di dollari l’anno. La missione si chiama Minurso. Sono 230 uomini mandati nei territori liberati per il referendum, che è sempre lì da fare dal 1991 e che ogni volta viene rinviato per qualche cavillo. Una muraglia che divide le coste più pescose del mondo e i campi di fosfati sfruttati dal Marocco – ma anche dalla Spagna e dalla Francia, sottolineano i politici saharawi - dalle terre desolate dove non cresce nulla. A fare la guardia ci sono, dicono, 5 milioni di mine e chi avrà voglia di andare a controllare se è vero.
Fatti i conti, con 60 milioni di dollari di aiuti all’anno elargiti dall’Onu, più i 25 milioni che costa la missione, forse converrebbe abbatterlo il muro. Per garantire poi che cosa? Meno di mezzo dollaro al giorno pro capite, 15 litri di acqua al dì che non sono nulla se una doccia, lusso ignoto da queste parti. Ci vogliono l’ingegno e la pazienza delle donne saharawi per far tornare i conti, la paziente contabilità che permette di spartire ogni bombola di gas, ogni risorsa per farle bastare a tutti. Non sono fondamentalisti, le donne sono importanti e si vede. Circolano, chiaccherano, abbracciano e baciano i visitatori che qui sono di casa. E’ una società paradossalmente serena, libera dalla malavita, dove, ci fosse un posto dove andare, di notte si può camminare senza ansie. I politici dicono che c’è una via, che l’Onu riconosce i diritti dei popoli e che le iniziative diplomatiche serviranno. I ragazzi stringono i denti, ma fanno i conti. In 19 anni di presunta pace non si è arrivati a nulla, nei precedenti 16 anni di guerriglia qualcosa si è fatto. Le ore da passare sono lunghe e nell’attesa della terra promessa che non arriva si perdono capacità artigianali, memoria, fede. Resta la rabbia. Non sono un popolo di terroristi, non ancora.
I Saharawi - letteralmente «i sahariani», dall’arabo Sahra - sono gruppi di tribù che abitano tradizionalmente il Sahara Occidentale. Rivendicano un’ascendenza araba e parlano l’Hassaniya, un dialetto di struttura fondamentalmente araba seppure con presenza di parole di origine berbera o dell’Africa Nera. Musulmani sunniti, sono i discendenti delle tribù nomadi che per secoli hanno abitato la zona. Protettorato spagnolo fino agli anni ”70, il Sahara Occidentale è stato teatro di un movimento indipendentista, guidato dal Polisario. Nonostante il verdetto dell’Onu sulla necessità di un referendum sull’indipendenza, la regione è stata invasa nel 1975 dal Marocco che ha cacciato parte della popolazione e ne occupa ancora due terzi. Il resto è controllato dal Polisario, che ha dichiarato una tregua con Rabat nel 1991.