Maurizio Ferrera, Corriere della Sera 08/06/2010, 8 giugno 2010
DONNE IN PENSIONE A 65 ANNI. CARA EUROPA, COSI’ NON E’ PARITA’
Nella stragrande maggioranza dei Paesi Ue le donne vanno in pensione alla stessa età degli uomini, di norma a sessantacinque anni. In Italia esiste invece una differenza di cinque anni, a favore delle donne. Si tratta del retaggio di un passato ormai lontano, imbevuto di paternalismo e familismo. La donna è la custode della famiglia, la garante delle sue funzioni assistenziali e riproduttive, dunque è giusto incentivarla a stare a casa o farcela tornare prima possibile nel caso in cui lavori. Questa filosofia trovò un’emblematica applicazione soprattutto all’interno del pubblico impiego. Una legge degli anni Cinquanta introdusse la possibilità per tutte le dipendenti coniugate con prole di andare in pensione dopo soli quindici anni di servizio, senza limiti d’età. Nei decenni successivi si formò così un vero e proprio esercito di «baby pensionate», che smettevano di lavorare intorno ai quarant’anni e tornavano in casa a occuparsi di marito, figli e parenti tutti. Una situazione unica in Europa, che si è protratta fino a quindici anni fa. Dopo una serie di riforme, ora per la pensione di vecchiaia le dipendenti pubbliche devono aver compiuto i sessant’anni. Gli uomini devono però lavorare cinque anni in più.
giusto mantenere in vita una simile disparità? Secondo la Corte di giustizia europea essa contrasta con le norme Ue in materia di eguaglianza retributiva. Considerando il trattamento pensionistico dei dipendenti pubblici alla stregua di «salario differito», i giudici di Strasburgo hanno chiesto al governo italiano di allineare i requisiti anagrafici delle donne a quelli vigenti per gli uomini: sessantacinque anni per tutti. La Corte è consapevole del fatto che le donne italiane subiscono forti penalizzazioni nel mercato del lavoro, ma ritengono (a mio avviso, opportunamente) che la logica del «risarcimento ex post» non sia corretta e siano invece preferibili misure «pro-attive» a sostegno delle donne che lavorano, mentre lavorano.
Per soddisfare la richiesta della Corte, il governo ha varato nell’estate del 2009 un provvedimento che porterà gradualmente (entro il 2018) l’età pensionabile delle dipendenti pubbliche a sessantacinque anni. La stessa legge ha anche stabilito che i risparmi ottenuti confluiscano in un «Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale» per finanziare «politiche sociali e familiari, con particolare attenzione alla non auto-sufficienza». Un intervento di ricalibratura esplicita e diretta fra comparti del welfare, che ha suscitato interesse anche in altri Paesi.
A distanza di undici mesi, la Commissione europea sollecita ora l’Italia ad applicare in tempi più rapidi la sentenza della Corte: la transizione dal vecchio al nuovo sistema dovrebbe completarsi entro il 2012, sei anni prima del previsto. Se il governo non si adegua, scatterà una nuova denuncia alla Corte, con l’imposizione di una multa molto salata. Come reagire a questa nuova richiesta di Bruxelles?
Tecnicamente, la Commissaria Reding ha ragione: il diritto comunitario non ammette deroghe in casi come questo. Politicamente, si tratta però di un’intransigenza poco comprensibile e ancor meno condivisibile. La previdenza è una sfera delicata che rispecchia tradizioni nazionali caratterizzate da diversità pienamente legittime (anche sul piano giuridico: tant’è vero che la Corte non ha posto in discussione la disparità di trattamento fra uomini e donne nel settore privato, ove le pensioni non sono da essa considerate «salario differito»). A che pro fare gli intransigenti su una questione non così rilevante sotto il profilo finanziario e invece così sensibile sotto il profilo sociale?
Bruxelles ha avuto senz’altro ragione a chiedere che il governo italiano riformasse il vecchio sistema. Ma oggi ha torto a pretendere che la riforma si realizzi (quasi) dall’oggi al domani. In tempi di crisi e di sacrifici (spesso giustificati proprio dicendo «li chiede l’Europa»), l’Ue ha oggi un disperato bisogno di recuperare consenso. Perché attirare biasimo verso Bruxelles in un momento così difficile? La Commissaria Reding invoca la non discriminazione e la parità di trattamento. Ma dimentica che questi due principi sono fra i pochi strumenti a disposizione della Ue per accrescere la propria legittimazione sociale. Sarebbe davvero autolesionistico brandirli come un’ascia per scardinare il complesso edificio del welfare nazionale.
La partita non è ancora chiusa e speriamo che si arrivi a un onorevole compromesso. Il governo italiano può sicuramente fare uno sforzo per accelerare la transizione, impegnandosi peraltro più esplicitamente a utilizzare i risparmi ottenuti per politiche a sostegno delle donne che lavorano. L’Ue deve dal canto suo mostrarsi più malleabile (tutti sanno che la Commissione ha di fatto molti margini di manovra nello svolgere il suo ruolo di «guardiana dei Trattati»). In questa fase, rigidità e dogmatismi rischiano infatti di fare molti danni. Ciò che serve sono regole e stili di governo flessibili, al servizio di un progetto di integrazione in cui «economico» e «sociale» possano non solo convivere, ma anche rinforzarsi l’un l’altro.
Maurizio Ferrera