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 2010  giugno 08 Martedì calendario

DUE ANNI DI CARCERE PER «NEGLIGENZA». SENTENZA – CHOC SULL’INFERNO BHOPAL

Il verdetto è arrivato ieri, 25 anni dopo la «notte del gas» (come è ancora chiamata a Bhopal) che il 3 dicembre 1984 trasformò la capitale del Madhya Pradesh in un inferno. La nube di veleno che si sprigionò sulla città dalla fabbrica della Union Carbide causò già nelle prime ore la morte di almeno 3.500 persone, soprattutto nelle bidonville vicine all’impianto della multinazionale americana più tardi acquistata dal colosso Dow Chemical. Nel corso degli anni, dicono le cifre ufficiali ritenute però riduttive, altri 15 mila morirono per le esalazioni. Centinaia di migliaia ne furono colpiti, solo i bambini erano 200 mila: moltissimi hanno prima riportato ferite, poi contratto malattie croniche e dato alla luce neonati con malformazioni terribili. Ora, finalmente, il tribunale di Bhopal ha decretato che otto ex dirigenti dello stabilimento che produceva pesticidi sono «colpevoli di negligenza fatale». Uno di loro èmorto nel frattempo. Gli altri, tutti anziani e tutti indiani a partire dall’ex presidente di Union Carbide India Keshub Mahindra, uno dei più noti imprenditori dello Stato, sono stati condannati a due anni di carcere e a una multa di 100 mila rupie, l’equivalente di 1.800 euro. In cella comunque non sono nemmeno entrati: pagata la cauzione, ieri sono rimasti in libertà. E molto probabilmente faranno appello, rimandando per chissà quanto tempo (in India la giustizia è notoriamente lenta) la sentenza definitiva.
«Troppo poco, troppo tardi» è la reazione degli abitanti, degli attivisti, delle organizzazioni per i diritti umani indiane e internazionali che da un quarto di secolo attendono giustizia per le vittime del peggior disastro industriale mai avvenuto al mondo. «Impicchiamo i colpevoli, traditori della nazione», gridava ieri la gente furiosa intorno al tribunale. «Questa punizione non basta: ho perso mio figlio, mio fratello, mio padre e ancora oggi ho incubi», ha detto ai media Ram Prasad, un sopravvissuto 75enne. Più politico, il noto attivista Rachna Dhingra ha dichiarato che «questo verdetto è una beffa, anche se purtroppo non è una sorpresa, e non è certo la sentenza esemplare che frenerà le corporation dal ripetere in futuro simili disastri».
La Union Carbide in effetti ha pagato ben poco per tutti quei morti e quei danni, minimizzati dallo stesso governo indiano forse per realpolitik, forse per l’evidente incapacità di arrivare a chi ha trasformato la città una volta famosa per i laghi e i giardini in un luogo infernale da cui scappare appena possi bile. Un posto dove ancora oggi la terra intorno all’impianto abbandonato è fortemente contaminata ma abitata, l’acqua della falda che la gente continua a bere contiene veleni al di sopra di ogni standard sanitario. Nel 1989 il gruppo statunitense arrivò a un accordo extragiudiziale con il governo di New Delhi a cui versò 470 milioni di dollari (contro i 3,3 miliardi richiesti inizialmente). Non molto è arrivato agli abitanti, denunciano le Ong locali, anche se parte dei fondi hanno finanziato un ospedale per le vittime dei veleni.
Ma soprattutto con quel risarcimento, unito più tardi alla vendita della filiale indiana definita dalla multinazionale Usa l’unica «colpevole» della strage, la Union Carbide ritenne che il caso Bhopal fosse chiuso. Di fatto lo fu: nessun dirigente americano del gruppo venne mai condannato. L’ex amministratore delegato Warren Anderson fu brevemente arrestato nella stessa Bhopal subito dopo il disastro ma uscito su cauzione fuggì negli Stati Uniti dove vive tranquillo da allora. Rifiutatosi di tornare in India per essere giudicato, è stato colpito da due mandati d’arresto indiani finiti in niente. E nel processo terminato ieri Anderson non era nemmeno più tra gli imputati, come non lo era la multinazionale Usa. Nel corso degli anni la causa che comprendeva anche loro, con un’accusa generale di omicidio colposo, si è ridotta per volere della Corte Suprema indiana ai soli ex dirigenti locali per «negligenza fatale»: ovvero scarso rispetto delle normative con conseguenti (ma non prevedibili) morti. Una decisione alla base del verdetto di ieri, risultato comunque uno choc per i sopravvissuti già reduci dalla sconfitta negli Stati Uniti dove avevano aperto senza risultati una causa civile contro la corporation. Che da 25 anni nega ogni responsabilità o perfino negligenza attribuendo il disastro al sabotaggio di un unico, mai individuato, dipendente indiano.
Cecilia Zecchinelli