Edoardo Castagna, Avvenire 6/6/2010, 6 giugno 2010
L’ALTRA GEOGRAFIA DISEGNATA DAL WEB [2
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Unione Sovietica e Jugoslavia non sono scomparse, ma vivono (e lottano, verrebbe da dire) con noi. Le sperdute isolotte di Tuvalu sono una mezza superpotenza, mentre gli Stati Uniti sono un microstato o poco più. la geografia alternativa disegnata dai domini internet, quelle due lettere dopo un punto che etichettano inequivocabilmente un sito web come parte di uno Stato. E che seguono una logica tutta loro. Ci sono i casi semplici, come il nostro .it o i simili .fr francese, .de tedesco o .es spagnolo: sempre gli stessi fin dall’inizio della Rete (1985, un’era geologica fa in termini internettiani), senza possibilità di equivoco. Ma intorno c’è tutta una galassia di eccezioni, particolarità e paradossi. Innanzitutto, gli Stati Uniti: la maggior parte dei siti internet viene registrato in quel Paese, la Rete stessa è nata lì: eppure .us, il loro dominio nazionale, è usato pochissimo. Gli americani, padroni dell’Impero, non sentono la necessità di specificare un’appartenenza nazionale che danno per scontata, e privilegiano le etichette di genere, quei domini non nazionali noti a tutti i navigatori: .com per i siti commerciali, .org per le organizzazioni non a fine di lucro, .gov per le istituzioni governative, .edu per scuole, università ed enti di ricerca, e così via. La stessa logica, ma a mezzo, è stata scelta dai cugini anglofoni del Regno Unito: anche loro usano i vari .gov, .com (magari contratto in .co), eccetera, ma poi ci aggiungono il dominio nazionale .uk. Una doppia etichetta, tanto per rimarcare anche online la sempre pretesa eccezionalità albionica; così, mentre i governi italiano o francese hanno i semplici indirizzi governo.it e gouvernement.fr, quello di Londra è cabinetioffice.gov.uk. Oltre a .uk per United Kingdom, inoltre, i sudditi di sua maestà hanno messo in cassaforte anche .gb (per Gran Bretagna): non lo usano, ma non si sa mai. Ancora online, invece, è .su: Soviet Union, Unione Sovietica. E pazienza se lo Stato non esiste più da quasi vent’anni. Assegnato il 19 novembre del 1990, è tuttora attivo e amministrato dall’Istituto russo per le Reti pubbliche.
Ci sono quasi centomila siti .su registrati, più o meno nostalgici – tanto del comunismo quanto della potenza imperiale che era stata l’Urss – e l’ente russo continua a venderne a un canone di seicento rubli (quindici euro) l’anno, anche se l’istituto internazionale che gestisce i domini, l’Icann, non vede di buon occhio la cosa.
Ha chiuso i battenti lo scorso 30 marzo, invece, .yu, l’ultimo vessillo della disciolta Jugoslavia. Introdotto nel 1989, nel corso degli anni Novanta aveva già perso per strada vari ’pezzi’ – Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia ”, fino a ridursi a coprire soltanto Serbia e Montenegro. Era sopravvissuto anche all’abbandono del termine Jugoslavia per l’unione dei due, sostituito nel 2003 da ’Unione Statale di Serbia e Montenegro’, e per qualche anno anche al definitivo scioglimento del condominio, sancito nel 2006 dall’indipendenza montenegrina.
Ma ormai i due Paesi viaggiano, anche su internet, su binari separati, con i domini .rs (Repubblica di Serbia) e . me (Montenegro). Vane sono state le proteste degli ultimi ’jugonostalgici’ contro la soppressione del .yu, così come a nulla sono valse, finora, le richieste venate di ostalgie affinché sia reso accessibile il .dd assegnato nel 1990 alla Germania Est e che nessuno ha mai fatto tempo ad attivare. Malinconicamente inutilizzati risultano anche .eh e .so. Il primo è riservato al Sahara Occidentale, il mai nato Stato del popolo dei saharawi occupato militarmente dal Marocco fin dagli anni Settanta. Il secondo è stato assegnato alla Somalia, ma il poverissimo e frazionato Paese del Corno d’Africa non è mai riuscito ad attivare le registrazioni. Eppure non si tratta di un grande sforzo tecnologico, anche perché spesso viene appaltato ad aziende private con sede nel ben più comodo Primo mondo. Tanto che riescono ad avere domini internet attivi, sia pure utilizzati da una manciata di siti, i numerosi territori d’oltremare che punteggiano il globo e politicamente dipendenti da Regno Unito, Francia, Stati Uniti e così via. Ecco che il planisfero di internet si colora di sigle a prima vista incomprensibili, da .ac per Ascensione (isoletta britannica in mezzo all’Atlantico, con un migliaio di abitanti) a .ax per le land, una miriade di isolotti tra Finlandia e Svezia sotto la sovranità di Helnsinki; da .fo e .gl per le danesi Fær er e Groenlandia a .wf per le sperdute Wallis e Futuna, avamposti francesi nel Pacifico. Hanno un proprio dominio, benché per ora inutilizzato, perfino le isole artiche norvegesi di Svalbard e Jan Mayen (.sj), quelle francesi di Saint-Pierre e Miquelon, al largo di Terranova (.pm), Bouvet, isola subantartica appartenente alla Norvegia (.bv; il fatto che sia disabitata evidentemente non conta) e perfino l’Antartide: .aq, usato da una manciata di laboratori di ricerca stanziati sul continente di ghiaccio. Dismessi invece per le giravolte della geopolitica .bu e .zr, un tempo domini di Birmania e Zaire e ora rimpiazzati da .mm e .cd dopo che i due Paesi si sono ridenominati, rispettivamente, Myanmar e Repubblica Democratica del Congo. Rottamato anche .cs, che pure aveva vissuto già due volte. Nel 1990 era stato assegnato alla Cecoslovacchia, ma appena tre anni dopo Cechia e Slovacchia hanno scelto di separarsi, anche in Rete. Nel 1995 .cs era stato così ritirato, salvo essere resuscitato nel 2003 per l’unione di Serbia e Montenegro. Mai realmente utilizzato – serbi e montenegrini andavano infatti avanti con il .yu ”, nel 2006 è stato rottamato definitivamente.
Ben altri sono i numeri internettiani di Tuvalu, minuscola isoletta dell’Oceania che dal web ha avuto un grande dono: il dominio .tv, dall’ovvio (e redditizio) doppio senso televisivo. Così Tuvalu, un pulviscolo di isolette sparse nel Pacifico con poche migliaia di abitanti, su quel dominio ci campa: dal 2000 ne ha affidato la gestione a una società californiana che lo rivende alle televisioni di mezzo mondo (non ultima Rai.tv) in cambio di cinquanta milioni di dollari in dodici anni. Oltre quaranta milioni di euro: non poco, per uno Stato che ha un prodotto interno lordo annuo di poco più di dieci milioni.
LE ISTITUZIONI
Decide tutto una Ong californiana
Attualmente l’attivazione dei domini internet, nazionali e non, spetta all’Icann, Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (’Società internet per l’assegnazione di nomi e numeri’). una società privata, non a fine di lucro, con sede a Marina del Rey, un sobborgo di Los Angeles. All’Icann il governo americano ha assegnato i compiti della Iana, Internet Assigned Numbers Authority (’Autorità per l’assegnazione di numeri internet’), precedentemente svolti dall’istituto di Scienze informatiche dell’Università della California Meridionale. A costringere al trasferimento di competenze è stata, nel 1998, la morte prematura del capo dell’istituto, il guru informatico Jon Postel. L’assegnazione dei vari domini attivati dall’Icann, invece, è di competenza di singole società private, più o meno collegate ai governi nazionali. In Italia tocca a Registro.it, dipendenza del Cnr – proprio cnr.it è stato, nel 1987, il primo sito registrato della Rete italiana. – che opera su delega Icann. Per registrare il proprio dominio .it basta verificare la disponibilità del nome scelto, iscriversi a Registro.it e pagare una canone annuale di quattro euro e mezzo; al servizio possono accedere non solo i cittadini italiani, ma anche quelli di un qualsiasi altro Stato dell’Unione Europea. (E.C.)
QUANDO LA RETE DIVENTA TERRA DI CONQUISTA PER I NAZIONALISTI
Sempre più insofferenti di dover sottostare a Madrid, e non paghi di aver praticamente cancellato ogni parola in spagnolo dalla propria regione, i catalani, dopo anni di accorto lobbismo, nel 2006 sono riusciti a spuntarla. La Catalogna non è uno Stato, ma ha un suo dominio internet: .cat. Un dominio anomalo, tre lettere invece che due come quelli nazionali veri e propri; Barcellona non è riuscita a spuntare quei due caratteri che l’avrebbero resa ancora un po’ più nazione, ma per il momento si accontenta. La Catalogna ci aveva girato intorno per anni; pur di non dover sottostare all’odiato .es spagnolo, si era aguzzata l’ingegno in modo imprevedibile. Il Comune ( ajuntament in catalano) di Girona, uno dei quattro capoluoghi di provincia catalani, si era addirittura inventato un ajuntament.gi, prendendo in prestito il dominio da Gibilterra – perché anche Gibilterra, come tanti altri territori d’oltremare, gode di quell’indipendenza internet negata alla Catalogna, solidamente ancorata alla terraferma iberica. La gestione del dominio è stata affidata all’associazione PuntCat.
Tecnicamente, si tratta di un dominio privato, di uso commerciale; di fatto, si traduce nell’esistenza virtuale di quei Paesi Catalani che «la storia – dicono a Barcellona – non ha benedetto» affinché divenissero un vero Stato. Le pagine internet .cat devono essere rigorosamente redatte in catalano, sennò niente autorizzazione, e sono .cat anche i siti delle istituzioni catalane (il Comune di Girona ora ha per indirizzo girona.cat). L’unico rischio era che a qualche azienda di prodotti per animali venisse in mente di sfruttare l’assonanza con la parola inglese per ’gatto’, cat appunto: pericolo non sfuggito ai solerti nazionalisti di PuntCat, che hanno esplicitamente vietato l’uso del loro dominio per pagine che, anziché delle glorie catalane, parlino di pappe per gatti. A meno che, naturalmente, non lo facciano in catalano. L’esempio di Barcellona ha fatto scuola, e nella sua scia è sorto tutto un florilegio di ambizioni nazionalistiche. Ecco così le richieste della Bretagna (.bzh), del Galles (.cym), dell’Inghilterra (.eng), della Galizia (.gal), del Leon (.lli), del Québec (.quebec), della Scozia (.scot), della Cornovaglia (.ker) e, naturalmente, dei Paesi Baschi (.eus).
Russi e arabi, invece, hanno spostato il campo delle loro rivendicazioni internettian-nazionalistiche sul piano alfabetico: stanchi della dittatura dell’alfabeto latino, hanno iniziato a pretendere la possibilità di essere online in cirillico o in arabo. La tecnologia fino a pochi anni fa non lo consentiva, ma ora l’ostacolo è stato superato, è già attive sono le varianti in cirillico di .ru (Russia; già in lista d’attesa anche Bielorussia e Ucraina) e in alfabeto arabo di .sa (Arabia Saudita), .eg (Egitto) e .ae (Emirati Arabi). In questi tre casi non si tratta di una mera traslitterazione da un alfabeto all’altro, ma dell’introduzione di vere e proprie parole; i nuovi domini suonerebbero infatti, se ri-traposti al nostro alfabeto, rispettivamente come .alsaudiah, .masr e .emarat. Nell’elenco dei domini richiesti appaiono anche .berlin e .paris, ma in questo caso non celano sorprendenti ambizioni indipendentiste di Berlino dalla Germania o di Parigi dalla Francia, ma banali interessi commerciali. Da un punto di vista turistico e promozionale, infatti, è ritenuto utile poter slegare i siti di esercizi alberghieri e commerciali di città di grande afflusso turistico dal più ampio domino nazionale. A questo mirano anche i promotori di .nyc per New York e di .bcn per Barcellona. Che così potrebbe saltellare tra tre possibilità, a maggior gloria dell’inesauribile creatività catalana.