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 2010  giugno 06 Domenica calendario

IL CANADA DELLA NOIA CORRE COME LA CINA

«C’è l’Europa in crisi per i troppi debiti, c’è l’America dei senza lavoro. E ci siamo noi», dice Michael Babad columnist del Toronto Star. Dove ”noi” sta per Canada. Quando, a fine mese, il G7 si riunirà a Toronto, metropoli più globale che mai (il 911, cioè il 113 locale, è attrezzato per rispondere in 156 lingue), i Big del pianeta troveranno infatti un Paese che ha già cancellato la parola crisi: l’economia va a gonfie vele, come dimostra la crescita impetuosa del Pil (+6,1 per cento nel primo trimestre), che sale a ritmi doppi rispetto ai vicini del Sud, gli Stati Uniti. Ma le statistiche non dicono tutto: negli Usa la ripresa non si traduce, per ora, in nuovi posti di lavoro. Tutt’altra musica nelle terre del Nord: in un anno sono stati creati 310 mila posti di lavoro, mica poco per un Paese che conta poco più di 30 milioni di abitanti. Non solo: a maggio 67 mila contratti part time sono passati a tempo pieno. Una nuova iniezione di fiducia che si traduce nel boom dell’immobiliare: «un modesto appartamento di Ottawa che si vendeva un anno fa a 435 mila dollari – dichiara a The Economist l’agente immobiliare Chris Cullwick – oggi vale 600 mila dollari».
RIALZO DEI TASSI
Un boom che ha consigliato al governatore della banca centrale, Mark Carney, di alzare i tassi di un quarto di punto allo 0,50 per cento. Non è gran cosa, perché anche qui fa paura il vento di crisi finanziaria che soffia dall’Europa. Ma è comunque la prima volta, dai tempi del tracollo di Lehman, che un Paese del G7 osa ritoccare all’insù il costo del denaro, cosa che probabilmente riporterà il dollaro canadese, oggi a 95 cent, alla parità con il cugino Usa. Eppure solo 15 anni fa The Wall Street Journal, scriveva che «Il Canada è il primo, ma non il più promettente tra i Paesi emergenti». Oggi il debito pubblico rappresenta il 38% del pil, meno della metà di quello Usa e il reddito medio dei canadesi, che pure hanno un’assistenza sanitaria, è più alto.
Ma qual è il segreto del successo canadese? «La felicità appartiene ai Paesi noiosi. E il Canada, lo sappiamo, è un Paese noioso», commenta Paul Krugman, premio Nobel dalla lingua tagliente. E i canadesi non s’offendono, anzi. «Sì, il nostro sistema finanziario è molto noioso», replica con orgoglio il ministro delle Finanze Jim Flaherty, l’occhio rivolto alla City di Toronto, dove in un fazzoletto di pochi chilometri quadrati, hanno la sede centrale le Cinque Sorelle, vedi le cinque grandi banche canadesi ( Royal Bank of Canada, Dominion, Bank of Nova Scotia, Canadian Imperial Bank of Commerce e Bank of Montreal) che per tre anni di fila hanno consentito al Canada di vincere l’Oscar di Moody’s assegnato al sistema bancario più solido del mondo, che pure in questi mesi continua a macinare utili
d’oro (quasi 5 miliardi di dollari nei primi tre mesi). Eppure il Canada è uno dei pochi Paesi che non è dovuto correre in soccorso al sistema del credito, nel momento della crisi. Sciami di economisti Usa hanno cercato di capire perché le banche di Toronto hanno evitato la crisi. A prima vista è un mistero. Anche in Canada, come negli Usa, negli anni della Bolla, il costo del denaro si è mantenuto molto basso, ma i famigerati mutui subprime non hanno mai superato il 5 per cento dell’offerta del sistema. Anche in Canada, come in Usa, il mondo del credito è controllato da poche, grandi banche universali che, però, hanno usato in modica quantità derivati o sviluppato con giudizio l’investment banking che non ha mai superato un terzo degli attivi. Insomma, il segreto non sta nelle formule, ma nel manico. La banca centrale ed il governo, guidato dal conservatore Steven Harper che pur non dispone di una maggioranza in parlamento, hanno imposto l’osservanza di regole severe: i mutui erogati oltre l’80 per cento del valore vanno riassicurati presso un ente pubblico; i prestiti devono restare entro una leva ben più bassa delle banche Usa od europee. E il Tier 1, a garanzia della solidità del patrimonio, non è mai sceso sotto la soglia del 7 per cento. E, soprattutto, niente risiko internazionale a suon di scambi di titoli, o tantomeno superstipendi ai banchieri legati ai miracoli di carta. Sembrava una politica miope, destinata a far finire le banche della terra dei caribù nelle mani dei signori di Wall Street. Al contrario, è stata una benedizione. E oggi Steve Harper può far la voce grossa contro chi chiede di tassare le banche: non potete far pagare a noi formiche i vostri eccessi da cicale. Benvenuti nella terra della noia, dove già sono scattati i primi arresti per le scritte anti G 20 sui muri immacolati della sede di Dominion Bank, le 5 torri edificate da Ludwig Miese van der Rohe. E dove ogni settimana i banchieri, senza nemmeno dover prendere la macchina, vanno a prendere una tazza di tè dal governatore , particolare non da poco perché «un sistema dove i vertici delle banche lavorano a stretto contatto di gomito spiega Peter Boone, docente canadese alla London School of Economics è facile da controllare».
IL MATTONE
Certo, il rischio è di imitare il cattivo esempio dei cugini: anche qui, come ai tempi della bolla Usa, il boom dell’economia è trainato dal mattone e dai servizi, fonte di otto nuovi posti di lavoro su dieci. L’industria, soprattutto quella dell’auto soffre ancora. Ma il Canada è uno strano, immenso Paese, dalla tripla identità economica: un po’ Usa, un po’ europeo e, verso Occidente, sempre più Brasile, se si pensa al sottosuolo ricco di materie prime. Il nuovo Canada, infatti, cresce a qualche migliaio di chilometri dai grattacieli di Toronto, dove avvocati e bancari sciamano per le strade attorno a King e Bay street. E non deve il suo benessere ai rapporti con New York, Londra o Parigi bensì alla fame di Pechino per le meraviglie che escono dalle viscere dell’Alberta: petrolio, gas, ferro, diamanti e sabbie di bitume che valgono oro. Averci una casetta piccolina da quelle parti, come profetizzava il quartetto Cetra.