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 2010  giugno 06 Domenica calendario

PI DIVIETI E CONTROLLI PER LIMARE LE UNGHIE AI MERCATI

Venerdì scorso è stato un altro giorno di ordinario terrore sui mercati finanziari questa volta innescato da una irresponsabile dichiarazione del portavoce del premier ungherese Viktor Omban su di una possibile ripetizione nel proprio paese della crisi finanziaria greca.
Una dichiarazione dal sapore polemico contro il governo precedente ha prodotto effetti devastanti ed immediati nelle borse europee. Una ulteriore testimonianza della fragilità dei mercati e della finanza internazionale. Subito sono ricomparsi sul banco degli imputati la globalizzazione e il debito pubblico degli Stati sovrani, a cominciare naturalmente da quelli europei. Imputare la globalizzazione di tutti i mali economici del mondo non è solo un errore ma è anche un alibi di molti governi per nascondere il proprio immobilismo o, se volete, la propria timidezza dinnanzi alla forza prorompente della finanza internazionale.
La globalizzazione, infatti, c’entra molto poco con tutto ciò che sta accadendo. Il suo divenire non solo è ineluttabile ma sta riportando oltre un terzo dell’umanità (i paesi del così detto bric, un acronimo di Brasile, Russia, India e Cina) ad un più dignitoso livello di vita. vero che questo terzo dell’umanità è oggi un produttore di beni a basso costo spiazzando così la produzione industriale dell’occidente ma lentamente e progressivamente sta diventando un potente consumatore dando così una spallata in positivo alla crescita mondiale.
Il vero imputato di cui quasi nessuno parla è, invece, la finanziarizzazione dell’economia. Un processo che ha trasformato la finanza da una infrastruttura al servizio dell’economia reale (la produzione di beni e servizi) ad una vera e propria industria del denaro in cui la materia prima sono i soldi ed i prodotti sono solo più soldi. Insomma un’economia di carta, come la chiamano alcuni colti personaggi della politica, mentre altro non è che un’economia di rapina che toglie valore ai prodotti, al lavoro ed al commercio per darlo alla finanza.
Questo ”mostro” della finanziarizzazione non è, però, il dono di un ”destino cinico e baro” all’intera umanità quanto il frutto avvelenato di una cultura economica e di una debolezza della politica che hanno visto nei mercati ”deregolamentati” il nuovo biblico vitello d’oro. Dinanzi al disastro del tempo presente la politica, e cioè i governi, pur consapevole degli errori del passato, non ha trovato ancora la forza per una inversione di marcia capace, in tempi brevi, di riportare la finanza al servizio dell’economia reale e quindi di una crescita virtuosa e stabile.
Per non limitarci solo ad una predica, ancorché giusta, due sole idee. La prima. necessario un nuovo ordine monetario mondiale per tagliare le unghie alla speculazione valutaria. Questo nuovo ordine monetario di cui finalmente hanno cominciato a discutere il presidente Sarkozy e il primo ministro cinese Wen Jiabao, può rapidamente essere varato con il modello adottato alla fine degli anni Settanta dell’Europa con il serpente monetario e cioè con una parità centrale tra le monete aderenti al serpente ed una banda di oscillazione sopra e sotto la parità. Bande di oscillazione, naturalmente, difese dalle banche centrali.
La seconda idea è quella di regolamentare i mercati con divieti progressivi (vedi, ad esempio, lo scandaloso fenomeno dei derivati) a fare alcune cose (vendite allo scoperto, riduzione della leva, no a ”futures” su alcune materie prime). Sinora su entrambi i versanti, nuovo ordine monetario e regolamentazione dei mercati, i governi sono in grande ritardo e la fragilità dei mercati aumenta sempre di più con tutto quel che ne consegue.
L’ultimo accadimento è il risanamento delle borse. Ha ragione Obama quando sostiene che il rimedio principe resta la crescita secondo un principio generale per cui se una famiglia o un’azienda ha un grande debito è giusto tagliare i costi a condizione che questa riduzione dei costi non contrasti con l’aumento del guadagno o del fatturato. Di qui, ad esempio, la nostra idea sulla recente manovra correttiva per cui è più utile elevare da subito l’età pensionabile (siamo il paese in cui ancora oggi si può andare in pensione a 59 anni e 36 anni di contributi) piuttosto che ridurre la massa spendibile di 3,5 milioni di famiglie di dipendenti pubblici.
Ma di questo torneremo a parlare con la libertà e l’indipendenza di sempre pronti, naturalmente, a ricrederci dinanzi ad argomentazioni contrarie.