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 2010  giugno 05 Sabato calendario

LA SERA ANDAVO IN TRAM DA CHAPLIN

La prima cosa che noti, entrando in casa sua, è un’imponente armatura antica, in fondo al corridoio. Perché la grande passione di Claudio G. Fava, genovese, 81 anni, è la storia militare. Come se niente fosse ti parla di borracce, di quanti bottoni hanno i diversi reggimenti che fanno la guardia alla regina, di come nel doppiaggio decine di film hanno tradotto male i gradi della marina giapponese. L’altra passione, ovviamente, è il cinema. Con i suoi occhiali evidenti, è stato infatti l’icona del critico cinematografico in tv.
Quando la tv si vedeva ancora in bianco-nero, quando la Rai trasmetteva film solo al lunedì e venerdì, appariva con il nome scritto sul sottopancia, e spiegava che film si sarebbe visto, magari anche come guardarlo, prestando attenzione a quel piano sequenza, a quella smorfia di Brando tanto actor’s studio. Di fronte aveva una platea da 18-20 milioni di persone, che ancora occhieggiavano con una certa venerazione l’elettrodomestico (anche perché per buona parte della giornata restava spento, muto, con un’immagine immobile più soporifera dell’ipnosi). Claudio G. Fava, con quella G. di Giorgio che sembrava un arabesco misterioso, ha portato per vent’anni in tv i film, i cicli dedicati a star americane supernote, Gregory Peck, Katharine Hepburn, Marlon Brando..., e ad autori di culto come Melville, che hanno gettato il seme della cinefilia in molti spettatori in erba. Mettendo insieme le due passioni ha pubblicato ora una bella storia del Cinema di guerra in cento film, dalle trincee di Milestone (All’ovest nulla di nuovo) all’Iraq della Bigelow (The Hurt Locker), edito da Le Mani.
Nell’educazione sentimentale di un critico c’è solo celluloide?
«Ovviamente no. Nella mia generazione l’educazione alla fantasia iniziava soprattutto con la letteratura. Io mi perdevo nella biblioteca di mio padre, un commerciante molto colto, trovando le cose più diverse. La storia dei sottomarini, gli atlanti, Jack London che mi faceva scoprire il Klondike e il socialismo, le Memorie di D’Azeglio, Dekobra. Ho letto non so quante volte Guerra e pace, delibando le descrizioni delle battaglie. Ho scoperto la sconvolgente disperazione di Remarque, dei giovani che andavano a combattere volontari in preda a delirio nazionalistico, e scoprivano che ”alla prima cannonata cambia tutto”. Poi è arrivato il cinema, nelle sale fumose, nelle parrocchie, nei locali ancora diroccati dalla guerra. Il cinema faceva parte di una mescolanza incoerente di emozioni, stimoli, desideri intellettuali. Per i critici della mia generazione non c’era il cinema e basta, il cinema fuori dal mondo. Dopo, molte cose sono cambiate. C’era uno studioso francese che sapeva tutto di Hollywood. Un giorno rimase incantato da un film di guerra sul Vietnam. E si stupì con altrettanto candore, quando gli dissero che laggiù in quelle giungle l’America stava davvero combattendo».
E il cinema com’è entrato nella sua vita?
«Un po’ come in quella di tutti i bambini, la domenica pomeriggio, con Disney. Ma la fascinazione del cinema è arrivata dopo la guerra, con i film americani. Ricordo l’emozione che ho provato sentendo Boyer parlare con la sua voce vera, in un film sottotitolato. Per andare a vedere il Grande dittatore, a Sampierdarena, feci un viaggio avventuroso in tram, che mi lasciò nella memoria un sapore di esotismo. Poi, Paisà, Il grande sonno, i film dei marines, Kazan. Alla base della cinefilia vorace c’è anche una ragione personale. Mio padre morì all’improvviso nel ”51 e io, da una posizione alto borghese, mi trovai all’improvviso in ristrettezze economiche. Andai a lavorare all’Inail, dove vigeva una disciplina di ferro. Il cinema alla sera, era la fuga dalle pratiche e dai capouffici, il sogno, la libertà. Era un bisogno quasi malato. Poi cominciai a collaborare con un gesuita che organizzava un cineforum. E lì la passione cominciò a speziarsi con la militanza critica».
Tra le sue letture preferite c’è il poliziesco.
«Anche i gialli sono una scoperta che risale alla biblioteca paterna. C’erano tanti polizieschi che odoravano un po’ di proibito nell’Italia fascista, dove bisognava sempre mettere i nomi dei criminali all’inglese. Amo Simenon, per la scrittura ovviamente, ma anche perché mostra il lato burocratico del poliziesco, il commissariato, il personaggio che entra agente semplice e va in pensione come commissario. Per lo stesso motivo mi è piaciuto McBain con il suo 87° distretto, che mette in trama non solo psicopatici assassini, ma anche l’America vera, gli uffici, i poliziotti di diverse origini etniche, i panini con l’hamburger, le segretarie. E’ da questo giallo di ”lavoro collettivo” che nasce la serialità televisiva, altro genere che mi ha sempre interessato. Sono stato io a portare in Italia Miami Vice e Hill Street Blues. A quest’ultimo cambiai anche un pezzo di titolo, lo reinventai in Hill Street giorno e notte perché temevo che la gente pensasse a qualcosa di musicale».
Com’è diventato critico in tv?
«Con un colpo di mano. La regola era che gli interni non apparissero mai in video. Un amico mi disse, ma tu parli di cinema come un libro stampato, perché non lo fai davanti alle telecamere? Trovai un buco in uno studio, registrai il primo intervento, lo mandai in onda. Nessuno disse nulla. E andai avanti. Il critico in tv, che organizzava cicli, fu una rivoluzione».
Lei è entrato in Rai nel 1970, ha vissuto gli ultimi anni della gestione Bernabei: un critico si ingarbugliava in molti laccioli per scegliere i film da presentare?
«Bernabei, pur essendo un democristiano di ferro, si circondava di giovani di altri partiti, anche socialisti e comunisti. Aveva in mente una televisione casta, pedagogica, e educata. Io vedevo i film da mandare in onda, dettavo un giudizio a un segretario, e i rapporti venivano letti per l’approvazione finale. Ero molto libero di scegliere, ovviamente nel rispetto delle regole. C’era timore del sesso, del turpiloquio, ma anche di offendere i partiti d’opposizione. Le preoccupazioni più forti di censura o autocensura, però, riguardavano il folto esercito di piccoli, silenziosi, attentissimi funzionari che esaminavano tutto. I film li passavano in moviola a caccia di fotogrammi proibiti. Una volta uno fece togliere dalla programmazione Il comandante, lo riteneva offensivo per la dignità dell’esercito perché a un certo punto, Totò, generale in pensione, viene schizzato da un’autopompa. Fu cancellato all’improvviso, pur essendo stato già annunciato sul Radiocorriere, la Bibbia. Ci fu una visione d’urgenza per capire che dramma fosse accaduto. Ma tutti risero, di offensivo non c’era nulla, era stata solo una fesseria più realista del re. Una volta mi fecero notare che Il giardino dei Finzi Contini era troppo osé, si vedeva per un istante il seno della Sanda. Ma De Sica è un maestro, obiettai, dura un attimo appena. Al settimo piano non amano i seni, mi rispose il mio capo, socialdemocratico».
Che cosa voleva spiegare allo spettatore tv?
«Parlavo non più di tre minuti, per non annoiare. Volevo spiegare a un pubblico di 18 milioni di persone, che stavano finendo di cenare, tra il rumore di stoviglie e bambini che lottavano per non andare a dormire, che potevano vedere tante cose in un film, in un attore, nella firma di un regista. Portavo lo stesso spirito militante dei cineclub che organizzavo da giovane. Villaggio dice che la battuta sulla corazzata Potiomkin gli è venuta in mente ricordando i miei cineforum. A me piaceva l’idea che prima di un film si parlasse del film, faceva parte del rituale».
In un periodo dove molta critica era di sinistra lei, invece, non lo era.
«Ero un liberale scettico. Ma il problema non era tanto il colore politico del critico quanto i suoi occhiali ideologici. Io amavo il cinema della Nato e quello del Patto di Varsavia. Mi piacevano Godard e Hawks, Hitchcock e Ford, Totò e Jean Gabin. Un film russo, per molti, era bello a prescindere. A me poteva piacere, ma dopo averlo visto. E mi piaceva allo stesso modo il cinema hollywoodiano, dichiarato prodotto dell’industria capitalista. E adoravo il cinema popolare. Allora era considerato un atteggiamento un po’ decadente, parola che sa tanto di odontoiatria. La commedia all’italiana oggi è quasi fuori discussione. Io ne sono convinto da sempre, ho fatto un ciclo in Rai dedicato ad Age e Scarpelli, che considero tra i più grandi scrittori italiani».