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 2010  giugno 05 Sabato calendario

[2 Articoli sul 10 Giugno 1940] LANITAL, SALPA E RAYON LA GUERRA DEGLI ITALIANI - Nessuno che si tenga minimamente informato può dirsi colto di sorpresa, quando nel primo pomeriggio del 10 giugno 1940, sotto un sole ormai estivo (31 gradi a Milano, 26 nella più temperata Roma), i megafoni agli angoli delle strade annunciano che «alle ore 18, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini parlerà al popolo italiano»

[2 Articoli sul 10 Giugno 1940] LANITAL, SALPA E RAYON LA GUERRA DEGLI ITALIANI - Nessuno che si tenga minimamente informato può dirsi colto di sorpresa, quando nel primo pomeriggio del 10 giugno 1940, sotto un sole ormai estivo (31 gradi a Milano, 26 nella più temperata Roma), i megafoni agli angoli delle strade annunciano che «alle ore 18, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini parlerà al popolo italiano». In tutto il Paese, anche nei centri minori, carri radiofonici e camion di camicie nere percorrono le vie, esortando la popolazione a concentrarsi nelle piazze e davanti alle sedi del Partito nazionale fascista. La guerra è nell’aria. Gli italiani l’hanno sentita avvicinarsi man mano che i giornali si riempivano di titoloni inneggianti alla trionfale avanzata tedesca in Francia. Le scuole hanno chiuso prima del tempo, il 31 maggio, e le strade sono piene di bambini e ragazzi: molti si apprestano a partire per le colonie di villeggiatura, fiore all’occhiello del regime. Il 4 giugno il governo ha rinviato l’Esposizione universale del 1942, per la quale è stato realizzato il nuovo quartiere romano dell’Eur. Si lavora per trasferire al sicuro le più importanti opere d’arte esposte nelle gallerie: anche le grandi vetrate del Duomo di Milano sono state rimosse. Inoltre i prefetti hanno impartito direttive per lo sfollamento e l’oscuramento notturno. Severi limiti sono stati posti alla circolazione degli autoveicoli. Il carburante è stato razionato: 25 litri di benzina al mese per chi ha una moto; 50 litri per i motofurgoncini; da 100 a 150 per le automobili, dipende dalla potenza; fino a 300 litri per gli autocarri più grossi. Da 175 a 300 litri per i taxi, a seconda della grandezza della città. D’altronde ben pochi italiani possiedono un veicolo a motore, mentre circolano per la penisola sei milioni di biciclette. Intanto la stampa, ligia alle direttive del regime, trabocca di comunicati in cui l’allusione all’intervento in guerra è trasparente. I 16 mila studenti milanesi fanno sapere al Duce che «uniti in un sol cuore e in sol braccio, non attendono che un suo ordine per lanciarsi, con il loro giovanile impeto, al raggiungimento di ogni più alta meta». Gli squadristi dell’Istituto nazionale di assicurazioni, «consapevoli dei grandi interessi della Patria», si proclamano pronti a «combattere per le immancabili fortune dell’Impero». Pullulano ovviamente i richiami all’italianità di Nizza (francese dal 1860) e di Malta (possedimento britannico). Ciò nonostante, tra la popolazione non si respira un’atmosfera bellicosa. I rapporti della polizia politica registrano piuttosto un clima di preoccupata rassegnazione. Scarsissimi i segnali di opposizione al regime, ma pressoché assenti anche le manifestazioni spontanee, non sollecitate dall’alto, in favore dell’intervento. C’è soprattutto voglia di distrarsi. Per esempio con gli spettacoli teatrali di Totò, di scena al Brancaccio di Roma con Quando meno te l’aspetti, e dei fratelli De Filippo, anche loro nella capitale con A che servono questi quattrini. E poi al cinema, dove furoreggiano dive come Doris Duranti, protagonista della commedia Ricchezza senza domani, mentre la sua rivale Clara Calamai, altrettanto bella, interpreta Le sorprese del vagone letto. Grande il seguito popolare anche per lo sport. Il giorno prima, domenica 9 giugno, si è concluso il Giro d’Italia, con la vittoria di un giovane sconosciuto che farà parlare molto di sé, Fausto Coppi. Maglia rosa dal 29 maggio, ha staccato di 2 minuti e 40 secondi il diretto inseguitore Enrico Mollo, mentre Gino Bartali, vittima di una brutta caduta, è nono, con un ritardo di tre quarti d’ora. Nel calcio, la stessa domenica, le semifinali di Coppa Italia hanno visto il Genoa prevalere sul Bari e la Fiorentina battere la Juventus: il trofeo andrà ai viola, vincitori per 1-0 nella finale del 15 giugno. Il campionato si è concluso invece il 2 giugno con il successo dell’Inter, che gareggia sotto le autarchiche spoglie dell’Ambrosiana. Autarchici sono divenuti del resto molti aspetti della vita quotidiana, a cominciare dai tessuti con cui si veste la gente comune. Al posto della lana c’è il lanital, ricavato dalla caseina, al posto della seta il rayon, al posto del cotone il cafioc. Per le scarpe, invece del cuoio, la salpa. Da qualche tempo è stata introdotta la tessera annonaria per lo zucchero e il caffè, mentre nei bar non si trovano più liquori stranieri, almeno ufficialmente. Razionamento anche per il sapone da bucato: la quota individuale è di 200 grammi mensili. Sono disagi che suscitano un certo malcontento, ancora ben lontano dal trasformarsi in dissenso aperto, che trova innocui sfoghi nei giornali umoristici come «Marc’Aurelio» e «Bertoldo». Ma sulla carta il Pnf è fortissimo, ha una presa capillare sulla società: gli iscritti ai Fasci di combattimento sono due milioni e 600 mila, ma bisogna aggiungere gli otto milioni di bambini e adolescenti inquadrati nella Gioventù italiana del littorio, i quasi quattro milioni del Dopolavoro, un milione e mezzo di massaie rurali, senza contare ferrovieri, insegnanti, postelegrafonici, invalidi e mutilati. In tutto oltre 21 milioni di italiani, su una popolazione di circa 45 milioni, sono membri di una qualche organizzazione legata al partito. Ma si tratta di un apparato pigro e burocratizzato, dominato dal conformismo di facciata. Ci sono anche i 100 mila giovani dei Gruppi universitari fascisti, teoricamente la futura élite del regime. Mussolini ha appena premiato, in una rapida cerimonia, i vincitori dei Littoriali 1940, gare di cultura, arte e sport riservate agli studenti dei Guf. Il primo classificato per la dottrina fascista è Luigi Meneghello, poi partigiano. Teresio Olivelli, terzo nel concorso sul tema sulla razza, sarà un martire della Resistenza, così come Giaime Pintor, terzo in letteratura. Poi ci sono i futuri ministri democristiani Paolo Emilio Taviani e Luigi Gui, i futuri comunisti Mario Spinella e Antonello Trombadori, i giornalisti Sandro Paternostro, Giorgio Bocca e Jader Jacobelli, lo storico Luigi Firpo. Quando Mussolini si affaccia, alle sei di sera, la dichiarazione di guerra «è già stata consegnata» (come dice lui stesso) agli ambasciatori francese e britannico, un’ora e mezzo prima, da suo genero Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e contrario all’intervento. Le piazze di tutta Italia sono gremite, chi è rimasto a casa ascolta la radio (oltre un milione sono gli abbonati all’Eiar). Il Duce si scaglia contro le «democrazie plutocratiche e reazionarie» e proclama che la sua coscienza è «assolutamente tranquilla». Rassicura la Grecia e la Jugoslavia, che aggredirà. Conclude lanciando una «categorica» parola d’ordine: «Vincere». Assordanti le manifestazioni di giubilo. Tuttavia molti testimoni (probabilmente condizionati anche dall’andamento successivo degli eventi) descriveranno la folla come disciplinata ma sgomenta, più che entusiasta. «Da oggi, qualunque cosa accada, il fascismo è finito», annota nel suo diario il giurista Piero Calamandrei, avverso al regime. Forse non ci crede neppure lui, ma è proprio così. Antonio Carioti, Corriere della Sera 5/6/2010 «VINCERE E VINCEREMO». MA FU L’ULTIMO BLUFF «Combattenti di terra, di mare, dell’aria; camicie nere della Rivoluzione e delle legioni; uomini e donne dell’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania: ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria: l’ora delle decisioni irrevocabili». Le ricordiamo tutti, queste parole: anche quelli che non erano lì in Piazza Venezia, anche quelli che non stavano incollati alla radio; anche quelli che non erano ancora nati. Le abbiamo ascoltate infinite volte tutti, con tristezza, con disperazione, con rimorso, con pietà. Ricordiamo quella voce metallica; ricordiamo quel volto duro e squadrato, di pietra sotto il berretto nero «alla bulgara». il volto del nostro delirio d’onnipotenza, delle nostre illusioni distrutte, dei nostri sogni spezzati. Forse, come avrebbe detto il poeta, del nostro inestinguibil odio e del nostro indomato amor. 10 giugno 1940: la piccola Italia che s’illudeva di esser diventata una grande potenza imperiale gettava, a fianco della potente Germania rinata dalle sue ceneri, la sua sfida ai grandi imperi liberali, alle «democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente», in un’avventura ch’era «la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra». Può darsi che oggi, rileggendo quelle parole, più d’uno sia colto da un’impressione sconcertante. Quell’«Italia proletaria e fascista» evocata in termini al tempo stesso tanto laconici e tanto retorici non veniva affatto presentata come vittoriosa e potente. Al contrario: essa si metteva dalla parte dei poveri, dei «dannati della terra», degli sfruttati. Dietro al Duce chiuso nell’orbace dalle spalline dorate si profilava ancora e nonostante tutto l’ombra del giovane Benito Mussolini agitatore socialista-interventista: la guerra destinata a rovesciare i destini del mondo, a rovesciare i troni dei potenti e ad esaltare il destino dei diseredati. Una guerra ch’era davvero la prosecuzione di quella del ’14-’18, il saldo dei conti ch’essa non aveva saputo chiudere, la reazione contro gli inganni e le ingiustizie della «pace ingiusta» di Versailles. Una guerra il conclamato scopo della quale era la rottura della prigione geopolitica che rinserrava una giovane potenza mediterranea entro il lago mediterraneo sorvegliato dalle due porte di Gibilterra e di Suez, saldamente in mano britannica. Se si considera che l’Italia unitaria era stata fondata, ottant’anni prima di allora, con l’appoggio non disinteressato di una Francia prima e di un’Inghilterra poi che ambivano a piazzare le loro pedine commerciali e portuali in una penisola che, con l’apertura del canale di Suez, sarebbe divenuta un molo mediterraneo importante sulla via degli oceani, l’entrata in guerra del ’40 acquista una prospettiva sulla quale di solito non si riflette: quella della definitiva liberazione del paese da un ruolo subalterno nel panorama politico europeo. Il tragico era che tale disegno era destinato a inquadrarsi nel contesto del profilarsi di una subordinazione ancora più forte e tragica: quella alla Germania nazista. Qui l’abile giocoliere Mussolini, che aveva avuto fino ad allora la fortuna e l’abilità di costruire il mito della potenza italiana su una serie di colpi di mano e di bluff ben giocati - l’ultimo dei quali era quello di mediatore degli accordi di Monaco del ’38 - si trovava adesso a doversi confrontare con il vero nodo irrisolto della sua politica. Eppure, al di là di quel che voleva far credere e forse alla fine credeva anche lui, non era stata la sua volontà a condurre le cose a quel punto. Il discorso del 10 giugno del ’40 va confrontato con quello pronunziato dal medesimo balcone quattro anni prima, il 9 maggio del ’36, quello commosso e commovente della fondazione dell’impero. Francia e Inghilterra non avevano digerito l’ingresso dell’Italia - autentico o fasullo che fosse - nel club delle grandi potenze: e avevano commesso, con le sanzioni, l’irreparabile errore di gettare il Duce nelle braccia del suo inquietante emulo ed allievo tedesco. Quello fu davvero l’imperdonabile peccato delle democrazie liberali, l’errore fatale consistente nell’aver rotto l’unità antinazista conseguita nell’aprile del ’35 col patto di Stresa: e l’inizio di un Totentanz le tappe del quale furono la guerra civile spagnola, gli ambigui accordi di Monaco, le leggi razziali del ’38, il «patto d’acciaio» italo-tedesco del 22 maggio 1939 che all’articolo 3 sanciva l’obbligo per entrambe le parti contraenti ad entrare in guerra se l’altra vi fosse impegnata, il patto di non-aggressione tedesco-sovietico del 27 agosto del ’39 che consentiva l’attacco tedesco alla Polonia di cinque giorni dopo. La «non-belligeranza» mussoliniana fu solo una manovra temporizzatrice. Il Duce sapeva bene che l’Italia non era militarmente pronta, e aveva intenzione di protrarre la sua astensione almeno fino al ’43. Ma le vittorie mozzafiato di Hitler lo presero di contropiede: tra il maggio e i primi di giugno del ’40 la capitolazione dell’Olanda e l’invasione del Belgio, l’aggiramento della Maginot e lo sfondamento della linea Weygand, la vittoria di Dunkerque dove il Führer si era preso il lusso di ostentare generosità e di non annientare il nemico in fuga, gli dettero l’impressione (non peregrina...) che non ci fosse tempo da perdere. La Wehrmacht era alle porte di Parigi: avrebbe potuto continuare il conflitto, con la Francia ormai occupata e l’Unione Sovietica alleata di Hitler? Mussolini si sentì a un passo dal successo finale e contemporaneamente a uno dall’emarginazione disonorevole: se la guerra fosse finita prima del suo ingresso formale in essa, il «patto d’acciaio» sarebbe stato unilateralmente disatteso e il potente alleato lo avrebbe respinto nella condizione di una Svizzera moltiplicata per dieci, e mancatrice di parola per giunta. Gli ci voleva, come cinicamente disse, una manciata di cadaveri per sedere da vincitore al tavolo della pace. E in seguito avrebbe affermato più volte che Francia e soprattutto Inghilterra erano le prime a pregarlo di muoversi in quel senso: la sua presenza avrebbe moderato le pretese di Hitler. Ottantasei anni prima, nel 1854, il Cavour era entrato non meno cinicamente di Mussolini in una guerra che ancor meno riguardava la penisola italica, quella di Crimea, con analogo scopo: sedere al tavolo dei vincitori e compartecipare ai frutti della vittoria. Il Duce decise di cogliere l’occasione e di giocare alla grande quello che sarebbe stato il suo definitivo bluff. Il Cavour ce l’aveva fatta: a lui, andò male. Sappiamo purtroppo bene il resto di quella storia. Franco Cardini, Il Tempo 7/6/2010