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 2010  giugno 04 Venerdì calendario

OKINAWA L’ ULTIMA TRINCEA - L’

isola dove le guerre non finiscono mai nonè il Giappone ma, sebbene non voglia, gli assomiglia. Dopo la ricostruzione dev’ essere stata discretamente signorile, trent’ anni fa. Oggi invece tutto è consumato, aggiustato, rotto, come nel vecchio salotto di un defunto. E come se un mattino, di Okinawa, nessuno avesse più saputo cosa farsenee una sera, temendo che ad altri potesse venire un’ idea, tutti abbiano preteso di tenerla piuttosto, per sempre, com’ era: una trincea abbandonata nell’ Oceano, monumento ai massacri del Novecento e rampa di lancio per le guerre del Duemila. La sua svuotata identità contesaè lo specchio della doppia crisi che investei suoi recenti conquistatori, ai due estremi del Pacifico. Pochi luoghi al mondo, aggrappati all’ Occidente, hanno sviluppato un rancore antiamericano così profondo. Ma il giorno in cui a Naha finiranno di abbattere l’ ultima decina di antiche dimore del regno Ryukyu, con i tetti bianchi di calce, sembrerà di essere atterrati in una cittadina della Florida. Gli abitanti, dopo le manifestazioni quotidiane contro le cinque basi militari Usa, si perdono tranquillamente tra fast-food, f a m i l y - m a r t , v i d e o - c i t y , shopping-center, casinò e chiese battiste. Sono ormai più americani dei ventisettemila marines asserragliati dietro i reticolati delle caserme e forse è per questo che, dopo sessantacinque anni, non li sopportano più. Il sogno dell’ arcipelago dove si nasconde il cuore dell’ impero decaduto, nella notte del Giappone è però tornare se stesso, indipendente come fino al 1500, sospeso tra Cina e Polinesia. I pochi sopravvissuti all’ operazione «Tempesta d’ acciaio», come Mashaide Ota, non hanno dimenticato il gas con cui nel 1945 gli yankee stanavano dalle caverne donne e bambini. «Mai più», dice, e si capisce perché Futenma è come se sul Piave gli austriaci tenessero ancora il loro esercito. Chi s’ è salvato ricorda però anche le milizie dell’ imperatore Hirohito, che negli stessi giorni nutrivano i ragazzi per usarli come scudi umani. L’ asfalto di Okinawa oggi è verde, rosso e giallo, come quello delle piste ciclabili della California. I suoi giardini tropicali sono assediati di fiori e spirituali come quelli di Kyoto. Ma non è per una fatalità che tra questi atolli, venduti per l’ ultima volta da Washington a Tokyo nel 1972, si è consumata la crisi del quinto governo giapponese in quattro anni. L’ isola delle guerre, riemersa dall’ olocausto mondiale per trasformarsi in un arsenale globale, retroguardia di Vietnam e Cambogia ieri, di Iraq e Afghanistan oggi, si risveglia per la prima volta vittoriosa e, per l’ ennesima, sconfitta. Yukyo Hatoyama, il «leader delle bugie democratiche», si è dovuto dimettere per aver traditoi condannati dell’ arcipelago. Essi capiscono però che quell’ addio, il loro trionfo, comminerà una comune condanna. Gli americani non andranno via, la crisi di Tokyo diventerà quella di Okinawa e questa sintetizzerà quella dell’ America. Per questo l’ epicentro del terremoto giapponese adesso brinda, ma non da festa. Sulla base area di Futenma soffia un vapore caldo. Gruppi di famiglie di Ginowan City, i militanti anti-Usa, mangiano pesce affumicato e anguria davanti ai cancelli grigi dello «United States Marine Corps». Un cartello, attaccato al filo spinato, avvisa che «durante i tifoni l’ ingresso rimane chiuso». Un mese fa erano centomila: i loro biglietti gialli avevano ammonito Hatoyama prima dell’ espulsione. Ora sono poche centinaia e sventolano bandierine bianche ritagliate da mutandee fazzoletti. Preparano la catena umana di domenica prossima e avvertono che la battaglia popolare non è finita. «Il premier è scappato - dice il governatore della prefettura, Hirokazu Nakaiama - . Aveva promesso di liberare l’ isola dagli invasori diventati custodie poi ci ha spiegato che sono invece i nostri indispensabili guardiani. Il successore deve sapere che non moriremo prima di averli visti andare via». Il fragore dei motori, in un’ oasi che potrebbe ricordare la pace, copre le voci. Elicotteri mimetizzati in assetto da guerra, bombardieri azzurri e caccia grigi con il missile sotto la pancia, decollano e atterrano con la rapidità delle api nell’ estate. Le strade attorno alla zona invalicabile sono vuote. I taxisti giapponesi si avvicinano spaventati, mentre colonne di pick-up, colmi di ragazzi americani con la testa rasata, sfilano silenziose verso i campus dell’ interno. Il giorno dopo aver «fatto cadere il governo della seconda potenza del mondo per dare lo sfratto alla prima», Okinawa è un universo spezzato in due. Ricorda il set di un kolossal sulla seconda guerra mondiale e stormi di cameramen non si stancano di filmare lo spettacolo di un conflitto simulato. I marines sono barricati negli spazi armati della loro «polizia internazionale», a Ginowan, Kadena, Naha e nel Camp Schwab di Nago. Gli abitanti restano chiusi nei condomini scrostati delle città e dei paesi costruiti per alimentare il mostro che li nutre. Sono ormai su pianeti distanti, ma le domande di Inamine Susumu, sindaco della prefettura che dovrebbe ospitare il nuovo aeroporto militare, sono quelle del veterano di Baghdad che passa il posto di blocco disteso su una Harley Davidson. Si chiedono perché i casermoni di Okinawa possono ancora muovere Obama e Hillary Clinton, costringere al suicidio politico Hatoyama, indurre Putin e Wen Jiabao a mettersi in viaggio. Chi devono difendere e da chi? Sembra non avere senso tenere il 75% della forza americana dislocata in Giappone sull’ 1% del suo territorio, quasi duemila chilometri a sud della capitale. Il 76% della popolazione, stremata dal rumore, dagli incidenti, da qualche stupro, da libri di storia riscritti e da una sorprendente regressione culturale, vorrebbe ormai che le forze statunitensi abbandonassero totalmente la nazione. E allora perché, se anche l’ America è stanca della guerra, Okinawa è condannata e restare Okinawa a costo di far cadere in nove mesi il primo premier democratico del Giappone in oltre mezzo secolo? La risposta si trova in uno dei luoghi più perfetti del pianeta. Shimabukuro Toshio, sindaco di Uruma, lo mostra con orgoglio e tristezza. una spiaggia bianca allagata di mare bianco, al largo della penisola di Katsuren. Nell’ estremo nord di Okinawa, rimasto intatto, la baia di Henoko entro il 2014 verrà tagliata in due dalla banchina di un’ isola artificiale. Su questa verrà costruita la nuova pista galleggiante della base Usa, spostata da Fudenma. Altri duemilacinquecento marines finiranno invece sull’ isola di Tokunoshima, nella prefettura di Kagoshima, ultimo rifugio dei delfini. «Bruciare un governo giapponese per poche ore - dice il sindaco - serviva per finire la distruzione bellica dell’ arcipelago dove passa il nuovo fronte, tra Washington e Pechino». Centinaia di abitanti, per protesta, piantano nella sabbia manichini nudi con un aquilone rotto in mano. Dicono di vergognarsi che sia stato il Giappone, «ancora una volta a fornire il campo della prossima battaglia». Non sono ambientalisti, ma persone qualsiasi. Un manifesto racconta «l’ anno nero di Tokyo nel mondo»: il ritiro delle Toyota difettose, l’ addio alla luna, le molestie alla principessina Aiko, la strage del tonno rosso e la mattanza delle balene, la peggior recessione economica dal 1945, il debito pubblico più alto del pianeta, il no alle Olimpiadi tra Hiroshima e Nagasaki, la corruzione e i fondi neri della politica, gli arsenali atomici clandestini. «Okinawa - dice Hirokazu Iha, docente dell’ università di Naha - è questo: la povertà che ritorna anche nell’ Occidente trapiantato a Oriente, nel passato travestito da presente». I giapponesi non lo accettano e appena sale la sera invadono la via principale di Naha per scaricare contro «marines e samurai» il loro terrore della miseria. Anche gli Usa però sono in allarme. Futenma, come la base sudcoreana fuori Seule quella kirghiza di Bishkek, è ritenuta «vitale» per non perdere il controllo di Asia e Pacifico. Gli Stati Uniti assistono alla crescita cinese e temono che Pechino, bruciato il «Kennedy del Giappone», attragga verso di sé economia e politica della regione. I generali di «Camp Smedley Butler», in un rapporto riservato, sostengono che la «crisi giapponese, quella nella penisola coreana e i recenti cambi di regime centrasiatici sono segnali chiari e collegati». I senzaterra di Okinawa lottano per «cacciare i fantasmi di due secoli». I colletti bianchi di Tokyo oggi si chiedono invece se «in questo secolo sarà meglio stare con gli Usa o con la Cina». Hatoyama, prima delle scuse e delle lacrime, aveva incontrato la Clinton e Wen Jibao. Non ha pagato i fondi neri che mamma Bridgestone gli ha passato per proiettarlo al potere, come il nonno. Ha pagato il passato e il presente di quest’ isola anti-giapponese, che si ostina a parlare una lingua propria e che esprime la nuova anima anti-americana del Giappone, sospesa tra i blocchi del Novecento che rilanciano la sfida del secolo. Non è indecisione: è una disperazione nazionale e occidentale e non crede più a cambi di governo, o alternanza di potere. Nella notte è davanti a me, lungo una canale di Ginowan. Due soldati escono ubriachi da un bordello e rompono le birre sui fili elettrici della base della marina statunitense. Uno è di Okinawa, l’ altro di Detroit. Sono ragazzi, non si sono riconosciuti. Guardano le scintille del loro cortocircuito e spaccano un’ altra bottiglia.