Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 04 Venerdì calendario

ANDATA E RITORNO ALL’INFERNO

Sono tornati a casa dopo undici mesi di ospedale gli ultimi due feriti della strage di Viareggio, accolti e protetti solo dall’affetto dei familiari e degli amici. Perché nessuno ha molta voglia di festeggiare. E poi è ancora presto per sapere se tutto potrà tornare davvero come prima. A incrociare i destini di Ihsan Ulhyq e Anna Chiara Maccarone, è stata la sera del 29 giugno del 2009, quella che Viareggio non dimenticherà mai. Al momento dell’esplosione, il primo - nato in Pakistan 44 anni fa, venuto in Italia in cerca di un lavoro - si trovava in strada, vicino alla stazione, per telefonare alla famiglia, distante migliaia di chilometri. Quando ha visto il treno deragliare e ha realizzato il pericolo che stava correndo, ha tentato di scappare, ma è caduto e si è rotto una gamba. Poi ha visto l’aria incendiarsi davanti a sé: deve la vita ai carabinieri, che lo hanno portato subito in ospedale.
Poco dopo, il fuoco ha raggiunto Anna Chiara Maccarone, nella sua casa di via Ponchielli, con il marito e la figlia. Tre giorni prima dell’incidente, la signora Maccarone, 60 anni, era andata a fare spinning, come sua abitudine, per tenersi in forma. Ora vive in una casa in affitto tutta su un piano perché le ustioni le hanno danneggiato tendini e muscoli delle gambe così in profondità che anche fare le scale è diventato un problema. «E se non fosse stato per la sua straordinaria forza d’animo – spiega il figlio, Antonio – credo che sarebbe morta: mia madre aveva ustioni di terzo grado sul 40% del corpo. Ci sono persone molto più giovani di lei che le avevano sul 35% del corpo e non ce l’hanno fatta. Ma in questi undici mesi ha dovuto affrontare un calvario incredibile e, per tre volte, ha rischiato di morire».
Antonio ha lo stesso coraggio di sua madre. Qualche tempo fa, in una lettera, ha trovato la forza di raccontare la crudezza della scena che si è trovato davanti, quella sera maledetta, in ospedale. «Mia sorella era su una barella e chiedeva acqua per essere bagnata sulle gambe ustionate, tremava così forte che saltava. Mia madre era completamente paralizzata dallo choc, aveva ustioni sul viso e su quasi tutto il corpo e lo sguardo completamente perso nel vuoto. Mio padre, scalzo, con i piedi bruciati e i brandelli di pelle che pendevano da una mano continuava ad assisterle versando addosso a loro l’acqua».
Tutt’intorno, l’inferno. Le urla disperate dei feriti, lo strazio dei parenti delle vittime, l’odore della carne bruciata che impregnava l’aria del reparto, l’affanno dei medici. «Mia madre ha dovuto subire una spellatura completa dal ventre agli arti inferiori davanti ai miei occhi e io non ho potuto fare altro che tenerle la mano e cercare di darle forza».
Poi, il trasferimento nel reparto grandi ustionati di Torino. «Mia sorella c’è rimasta un mese e mezzo, ma ancora oggi sogna di essere avvolta dalle fiamme: un incubo ricorrente dei grandi ustionati. Mia madre ha dovuto affrontare le prove più dure: ha subito otto interventi di innesto cutaneo, ma anche medicazioni molto dolorose e complicazioni. Una di queste, dopo il primo mese, quando avevo appena portato a casa mio padre. Mi telefonarono da Torino dicendomi che le condizioni di mia madre si erano aggravate, il primario mi spiegò che in tanti anni di lavoro non gli era mai successa una cosa del genere: era andata in ipotermia diventando necrotica e pensavano di doverle amputare parti del corpo. Quello è stato uno dei giorni peggiori perché non sapevo come dirlo a mio padre e nello stesso tempo pensavo a mia sorella che era sola a Torino, angosciata».
Ma l’elenco dei giorni terribili, per Antonio, è lungo. «Sono stato costretto a lasciare il lavoro: la mia famiglia ha subito gravi danni anche alla casa e alle auto. E con il pensiero di mia madre in bilico tra la vita e la morte, mi sono dovuto sobbarcare il peso di mille incombenze. Ho sentito molto la mancanza di un supporto morale da parte del Comune: nei primi mesi non ho mai ricevuto una telefonata. Un’altra cosa che ritengo impensabile è che vittime non vengano tutelate automaticamente dallo Stato e che non ci siano garanzie sulle procedure processuali».
In questi mesi ci sono anche stati incontri positivi. Come quello con il primario del reparto grandi ustionati di Torino, Maurizio Stella: «Un medico straordinario, che non smetterò mai di ringraziare. E lo stesso vale per la sua équipe. E poi Giuseppe Torselli, un ingegnere di Forte dei Marmi che ci ha aiutati tanto».