Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 04 Venerdì calendario

NEW YORK ORA DIFENDE MARY POPPINS

Da «Supercalifragilistichespiralidoso» al «pacchetto-legge». Le tate escono dall’illegalità, ma, forse, anche dal Mito. Lo Stato di New York, con un voto al Senato, ha finalizzato, dopo sei anni, una legge per dare alle tate pensioni e assicurazioni.
E avranno anche 14 giorni di preavviso prima di essere licenziate. E’ il primo Stato Usa ad approvare tale misura, e non meraviglia: nella città più dominata dalla corsa alla carriera delle donne, a New York, ce ne sono, secondo i numeri ufficiali (ma in questo settore il nero è norma) 200 mila.
Quel che ci colpisce di questa legge (necessaria e benvenuta) è che segna la fine di un’epoca - trasformando la vecchia tata, figura parte della mitologia familiare, in una comune lavoratrice domestica. Le nanny sono infatti figura molto letteraria. Non necessariamente positiva. La tata è figura sentimentale ambigua, così come il suo status: un adulto estraneo alla famiglia che si inserisce nelle viscere più profonde della famiglia stessa. Il gioco di continuità e sostituzione con i genitori è una delle più complesse esperienze per bambini e grandi; e si presta a un gioco di ombre in cui si nascondono rivalità, gelosie e timori.
Le nanny sono, intanto, un simbolo di un determinato periodo: quello vittoriano. Epoca del formarsi della borghesia dell’impero, e di una codificazione della famiglia come la conosciamo oggi. Mononucleare, ereditaria, definita dalla sua privacy e dalla sua proprietà, casa in testa. La tata era, in una società ricca e in ascesa, la certificazione che la madre era pubblicamente affrancata dai compiti dell’allevamento. Una liberazione ante litteram per donne ricche. E forse proprio la tensione fra complessi di colpa e l’ottimismo che segna l’epoca ha segnato alla radice la formazione del mito intorno a questa figura.
Nessun racconto di nanny può ovviamente esimersi dal citare la più mitologica di tutte, Mary Poppins, figura felice, che nasce nel 1934 dalla penna di P.L. Travers, ed è già il richiamo nostalgico a un mondo finito. In opere vittoriane vere, come Peter Pan, scritto dallo scozzese J.M. Barrie, il rapporto dei bambini con i genitori è però quello dell’abbandono. Sull’Isola che non c’è Peter Pan ha raccolto la banda dei «Lost Boys», i bambini abbandonati, appunto.
La tata vittoriana era talmente simbolo da divenire essa stessa parte della civilizzazione inglese: ricordate il film «The king and I», con Yul Brynner pelatissimo nei panni di un re siamese che alla fine danza con la tata inglese? E’ tratto dalla storia vera di Anna Leonowens, inglese nata nel 1834, da lei raccontata nel libro «The English Governess at the Siamese Court».
Anche grandi scrittori hanno affrontato il tema. Penso a «La balia» di Pirandello, che rende esplicite le dinamiche di classe, e all’Henry James di «The Turn of the Screw», in cui è il rapporto fra nanny e figura maschile al centro dell’inquietudine. C’è persino una tata antinazista nella narrativa: ricordate in «The sound of music» una suora canterina, interpretata da Julie Andrews, difende la famiglia di un aristocratico (e l’aristocratico stesso) austriaco dall’influenza nazista?
Sarà poi la società opulenta, dagli Anni Ottanta in poi a trasformare le tate, un mito, in babysitter, operaie spesso senza nome. E’ la famiglia stessa che diviene una minisocietà fondata sul doppio reddito. Questo nuovo rapporto anonimo e feroce, per babysitter e per madri, in cui spesso i figli diventano oggetti, è stato messo alla berlina dal successo di un libro, «The Nanny diaries», scritto nel 2002 da Emma McLaughlin and Nicola Kraus, studentesse della New York University che avevano entrambe lavorato come babysitter di facoltose famiglie di Manhattan. Ne è stato fatto anche un film, nel 2007, interpretato da Scarlett Johansson.
Va detto però che la massa di donne in carriera, liberate dai loro studi e dal loro reddito, ammette la contraddizione fra se stesse e i figli, e fra sé e la tata, dunque. Se la più famosa nanny d’America rimane ancora oggi la dolce e grassa Mamie che si cura di Rossella (O’Hara, di «Via col vento»), molto più drammatico è il successo letterario del 2009, «The help», di Kathryn Stockett. Ambientato in Mississippi nei primi Anni Sessanta, è una sorta di educazione sentimentale di una giovane bianca che raccoglie le storie di vita delle sue cameriere-nanny. E’ un’ inquietudine che viene colta anche dal cinema in molti film horror, in cui le tate sono personaggi diabolici, come in «The Guardian», diretto da William Friedkin, lo stesso de «L’esorcista», o «Le mani sulla culla».
Che l’uso di delegare i propri figli ad altri sia un bene o un male, che signore educate ad Harvard facciano carriera mentre i loro bambini vengono educati da latine o filippine che non sanno spesso nemmeno parlare o leggere in inglese, sono, come si vede, questioni tutte aperte. Che nessuna legge può cambiare.