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 2010  giugno 04 Venerdì calendario

«L SO’ TUTTI IMPICCI»

«Io sto nell’edilizia, lì so’ tutti impicci». La frase è una di quelle memorabili del film di Daniele Luchetti ”La nostra vita”. La pronuncia Claudio, il protagonista interpretato da Elio Germano, quando vuole giustificarsi con l’amico spacciatore che gli chiede se paga le tasse. «So’ tutti impicci». In tre parole c’è la fotografia di quello che è sempre successo a Roma nel mercato immobiliare. Sia chiaro, non sempre impicci illeciti, porcherie illegali, roba da codice penale. Ma pur sempre impicci, magari inciuci, favori, alleanze a volte insospettabili fra monsignori e palazzinari, politici e faccendieri, grandi burocrati dello Stato e gentiluomini di Sua Santità.
Per questo motivo non deve stupire più di tanto l’intreccio che sta emergendo in queste settimane nell’inchiesta legata ai nomi di Angelo Balducci, Diego Anemome e Angelo Zampolini. Un intreccio che lega appunto grandi costruttori, architetti, immobiliaristi, monsignori e politici.
Il ruolo della Chiesa in queste vicende non sorprende l’architetto Marco Romano, docente di Estetica della città, autore di ”Ascesa e declino della città europea”, appena pubblicato dall’editore Raffaello Cortina. «Le cose che stanno venendo fuori dalle inchieste», dice al Riformista, «non mi sembrano così strampalate. A Roma c’è un enorme patrimonio immobiliare gestito dalla Chiesa. Questo sia per la storica presenza del Vaticano, ma anche perché molti privati lasciavano alla Chiesa i loro beni. Poi la Chiesa non li ha mai rivenduti e, anzi, ha cercato di guadagnarci soldi. A Roma il fenomeno è più vistoso, ma esiste anche in altre città, per esempio a Milano, dove la Curia ha un discreto patrimonio immobiliare».
Ma questo non spiega tutto. «Il vero problema», prosegue Romano, «è il sottobosco di favori che gira attorno alle opere pubbliche. Gli scandali legati all’edilizia e all’urbanistica accadono un po’ dovunque. Ricordiamoci che in fondo le tangenti urbanistiche le ha inventate il partito socialista a Milano. Quanti soldi sono girati attorno alla metropolitana milanese? Ma a Roma è tutto ingigantito perché il grande magma dei lavori pubblici gira attorno ai ministeri e ai grandi appalti. Tutto passa da Roma. La grossa torta è lì e da sempre le opere pubbliche rappresentano una grande fonte di sottogoverno».
Prima dei moderni piani regolatori, nella storia di Roma i maggiori piani urbanistici sono stati fatti dai Papi. In fondo la Roma del 1870 era in gran parte quella ridisegnata da Sisto V e dal suo architetto Domenico Fontana alla fine del Cinquecento. Oggi intere aree della città sono fitte di proprietà degli enti ecclesiastici o del Vaticano. C’è un quartiere di Roma che i romani hanno sempre definito ironicamente ”Gran Pretagna”. il quartiere Aurelio, situato alle spalle del Vaticano, spalmato sulla parte alta della città che si estende verso Nord-Ovest. Qui c’è forse la più alta concentrazione al mondo di proprietà immobiliari ecclesiastiche. Case generalizie di monache e di preti, conventi, monasteri, collegi, scuole, opere pie, sale convegni. Sono strutture a volte enormi, nate quando la Chiesa cattolica romana non soffriva il calo delle vocazioni. I cameroni erano sempre pieni. Ogni giorno, da quei portoni, era un gran svolazzare di tonache e di veli. Oggi molte di queste strutture sono semivuote o ridotte a ospizi per preti e suore ottantenni. Alcune si sono riciclate in strutture alberghiere.
A Roma il potere statale abita in palazzi che furono della Chiesa. Il presidente della Repubblica alloggia al Quirinale, che fu residenza dei Pontefici. Palazzo Madama, oggi sede del Senato, era il ministero delle finanze pontificio. Palazzo Montecitorio fu creato per ospitare i tribunali di Innocenzo XII. Dopo l’arrivo dei piemontesi, fra il 1871 e il 1875, furono almeno una cinquantina gli edifici religiosi destinati ad usi collettivi. Molti ministeri, in quegli anni, occuparono conventi.
Nel 1870 Roma aveva una struttura sociale divisa in tre strati., Ai vertici c’erano le gerarchie ecclesiastiche, proprietarie di grandi estensioni fondiarie, e la nobiltà. In mezzo c’erano generetto e generone, ceti sociali eterogenei bene inseriti nel potere economico pontificio. Lo formavano proprietari terrieri, professionisti, commercianti e imprenditori. Nato alla fine del Settecento, il generone ebbe il suo fulgore fra il 1840 e il 1870. Poi, con l’arrivo dei piemontesi, dovette cambiare pelle, pur mantenendo sempre buoni rapporti con il Vaticano. «Gli esponenti del generone erano veramente cattolici, ci credevano. Che poi nella pratica fossero dei figli di mignotta è un altro discorso», dice al Riformista il professor Mario Sanfilippo, che al generone ha dedicato uno studio pubblicato da Edilazio. Dopo i 1870 il generone entrò nelle nuove società fondiario-immobiliari e negli istituti di credito, sfruttando il fenomeno della lottizzazione. Alla base della piramide sociale c’era il popolino. Quello immortalato dai sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. Miserabile, cinico e insolente. Il popolo che per descrivere l’ingordigia immobiliare degli enti ecclesiastici diceva: «Opera pia, opera piglia».
Dopo l’Unità d’Italia si aprirono i grandi cantieri per espandere l’edilizia pubblica. Crispi chiese consigli anche al prefetto Haussmann, l’uomo che demolì interi quartieri di Parigi per far spazio ai grandi boulevards. Ma le soluzioni radicali proposte da Haussmann non trovarono ascolto a Roma. Furono comunque anni di fervore urbanistico. E, anche allora, di ”impicci” e inevitabili scambi di favori.
«Sa perché l’Altare della Patria è fatto di quel marmo bianco scintillante in una città invece dominata ai toni caldi del travertino e del tufo?», chiede l’architetto Marco Romano. «Il primo ministro dell’epoca», spiega, «era il bresciano Giuseppe Zanardelli, il quale fece avere l’appalto per la costruzione del Vittoriano alle cave di Botticino nel bresciano. Tutto quel marmo bianco arrivò da lì, per la gioia di Zanardelli e dei suoi concittadini bresciani, un po’ meno dei romani che si trovarono nel cuore di Roma quel monumento di un bianco accecante».
Per Roma gli anni del piccone arrivarono con il Fascismo. Il piccone lo impugnò lo stesso Mussolini, per le farsi immortalare dalle foto che lo ritraggono mentre comincia a demolire le case della cosiddetta ”spina di Borgo”, il quartiere che occupava l’attuale via della Conciliazione. Altre demolizioni furono fatte attorno ai Fori, per creare via dell’Impero, l’attuale viale dei Fori imperiali. Nel saggio ”Fascismo di pietra”, dedicato all’impronta del fascismo nell’urbanistica di Roma, lo storico Emilio Gentile scrive: «Mussolini su impegnò personalmente , con decisione e ostinazione, per realizzare a ritmo accelerato la costruzione della nuova Roma fascista, grande e imperiale come lui la sognava».
«Così il popolo dovette sloggiare dai quartieri demoliti», osserva il professor Sanfilippo, «e spostarsi verso altre zone, come la Garbatella, che nacque proprio in quegli anni. Nei nuovi palazzi attorno a via della Conciliazione vennero invece ad abitare cardinali e monsignori».
Nel dopoguerra lo sviluppo urbanistico di Roma viene gestito soprattutto dalla Società Generale Immobiliare. Costruisce dal nulla interi quartieri: Balduina, Vigna Clara, Olgiata, Casal Palocco. Sono gli anni del sindaco Salvatore Rebecchini. Nel triplice ruolo di politico democristiano, buon amico del Vaticano e ingegnere, Rebecchini incarna perfettamente quell’alleanza fra poteri che fa da motore alla crescita della città. A Roma si costruisce senza sosta. Case per gli immigrati dal sud e dalle campagne. Case per gli statali. Poi comincia l’epoca dei ”grandi eventi”, anche se allora non si chiamavano così e non c’era alla ribalta un onnipresente Bertolaso in golfino. Il Giubileo del 1950. Le Olimpiadi del 1960. Poi i mondiali di calcio del 1990. Il Giubileo del 2000. La nuova Fiera. I mondiali di nuoto del 2009. Pietra su pietra. Mattone dietro mattone. Cemento a volontà. Appalti. Miliardi. Così fino ad oggi. Con l’inevitabile contorno di mele marce, faccendieri, abusi, scandali, sequestri, scambi di favori. Impicci, appunto.