Varie, 4 giugno 2010
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Lano Angela
• Torino 11 giugno 1963. Giornalista. Uno dei sei italiani (Giuseppe Fallisi, Marcello Faracci, Manolo Luppichini, Manuel Zani, Ismail Abdel-Rahim Qaraqe Awin) arrestati dagli israeliani il 31 maggio 2010, notte del sanguinoso arrembaggio alla Marmara, mentre viaggiavano su navi umanitarie al largo della Striscia di Gaza • «24 maggio Salpiamo da Atene. Io e gli altri italiani siamo sulla nave “Ottomila”. In tutto ci sono una cinquantina di passeggeri, la metà giornalisti e gli altri attivisti. La nostra è una vecchia motovedetta militare un po’ riammodernata, ma è scomoda. Sarei voluta andare sulla nave turca, la Marmara. Per un po’ insistiamo per cambiare mezzo, ma non ci riusciamo. 29 MAGGIO. Dopo una sosta a Cipro ci rimettiamo in mare. Abbiamo appuntamento con le altre navi della flottiglia in un punto predefinito in acque internazionali. Lì ci compattiamo a freccia. La nave turca davanti, i cargo ai lati e in mezzo le altre navi con i passeggeri. E così ripartiamo. 30 MAGGIO. Sappiamo che man mano che ci avviciniamo dobbiamo aspettarci un attacco israeliano. Ci siamo preparati nei giorni precedenti. Abbiamo studiato le tecniche di resistenza nonviolenta, abbiamo simulato degli attacchi. Ma ci ridevamo su, sapevamo che di fronte alle forze speciali non avremmo potuto competere. In serata dai sistemi di comunicazione della nave arrivano al capitano i primi ammonimenti: “State navigando in acque israeliane, questo è un reato”. Ma non era vero. 31 MAGGIO, notte. All’una e mezza le comunicazioni via radio si fanno sempre più minacciose e in lontananza si vedono le prime luci delle navi israeliane. Però il capitano ci tranquillizza e ci dice che sono ancora lontani. Andiamo a dormire, lasciando qualcuno di vedetta. Alle quattro e mezza vengono a svegliarci. Non facciamo in tempo a renderci conto di quello che sta succedendo che veniamo speronati dai gommoni delle forze speciali. Sono una ventina di uomini. Noi giornalisti ci mettiamo in cabina, gli attivisti fuori ci fanno da scudo umano e vengono picchiati. Alcuni attivisti vengono storditi con pistole elettriche. Sparano pallini di gomma e lanciano granate assordanti. Entrano e picchiano il capitano sbattendogli la testa contro la parete e prendono il comando della nave. Ci fanno sedere sul ponte. Fa freddo. Ci rubano tutto, attrezzature, bloc notes, bagagli, soldi. Gli urliamo contro di tutto. Le altre navi sono a vista. Vediamo che tutte sono state assaltate. In particolare quella turca: è avvolta in una nuvola di fumo. Ma ancora non sappiamo che ci sono dei morti. 31 MAGGIO, mattino. Quando fa giorno vediamo dagli occhi, sotto i passamontagna, che i nostri sequestratori sono tutti molto giovani, avranno vent’anni. Diciamo loro che possono rifiutarsi di fare quello che fanno, ma è come parlare con un muro. Solo le donne soldato sembrano imbarazzate per quello che è accaduto. Intanto riprendiamo la navigazione e dopo otto ore, all’una, attracchiamo. Altre ore di interrogatorio, ci propongono di firmare un foglio in cui ammettiamo di aver commesso dei reati e ci rifiutiamo. Ci perquisiscono e ci fanno salire su un pullman-gabbia. Dopo ore al sole partiamo per il deserto. 31 MAGGIO, pomeriggio. Da uno spioncino vediamo un cartello stradale e capiamo che siamo diretti al carcere di Beer Sheva. È una struttura nuova, grande. Visita medica, altro tentativo di farci firmare lo stesso foglio, poi ci mettono nelle celle. Siamo in 90. Tra di noi parliamo, ci raccontiamo tutto. E sappiamo delle vittime. È uno choc, soprattutto perché sappiamo che le nostre famiglie non sanno che siamo vivi. Chiediamo di parlare con un avvocato e con l’ambasciata, di telefonare a casa, ma ce lo negano. 1 GIUGNO. Passiamo la giornata a raccontarci storie ed esperienze. Noi giornaliste ci attiviamo, scriviamo storie sulla carta igienica, sul cartone delle magliette che ci danno, rubiamo fogli e penne alle guardie. Mangiamo peperoni crudi, formaggio e cetrioli. Tra di noi c’è anche un’ex diplomatica statunitense che ci dice che dopo 24 ore devono darci assistenza legale e diplomatica. Che in effetti la sera arriva. E la tensione inizia ad allentarsi. Per prima arriva una funzionaria brasiliana. Mi commuovo perché scopro che l’ha avvisata mio marito, che è nato appunto in Brasile. Poi arriva una diplomatica italiana, che mi fa raccontare tutta la storia e mi è molto vicina. Ma una donna turca viene a sapere che il marito ferito è morto. La cosa ci sconvolge. Ci danno un paio di schede telefoniche per tutte. Ce le dobbiamo passare. Possiamo stare al massimo un minuto e parlare in inglese. Mio marito mi dice “tutto il mondo è con voi”, ed è un’emozione forte. Una si sbaglia, parla nella sua lingua e le staccano la linea. Poi arrivano anche gli avvocati, è un sollievo perché vedo Lea Tsemel, da sempre al fianco dei palestinesi. Ci consigliano di formare un foglio in cui accettiamo di essere deportate, senza ammettere di aver commesso un reato. 2 GIUGNO. Alle sei ci svegliamo e con gli stessi pullman andiamo all’aeroporto, nell’area delle espulsioni. Crediamo di essere imbarcati ognuno per il proprio paese. Invece scopriamo che siamo diretti tutti in Turchia. E qui tutti – ce lo diremo dopo – abbiamo una brutta sensazione: di salire insieme su un aereo che poi, per un guasto tecnico, precipiterà. Saliamo solo dopo molte rassicurazioni. Però la Turchia non accetta di farci partire finché l’ultimo prigioniero non sarà liberato. E aspettiamo a bordo fino all’una di notte, quando finisce l’interrogatorio di uno dei leader turchi dell’Ihh. Partiamo. 3 GIUGNO. L’accoglienza è strepitosa, emozionante. Solo allora capiamo quanta risonanza ha avuto questa vicenda» (testo raccolto da Federica Cravero, “la Repubblica” 4/6/2010).