Cesare Maffi, ItaliaOggi 2/6/2010, 2 giugno 2010
EVASIONE FISCALE, 60 ANNI DI PAROLE
Combattere l’evasione fiscale. un imperativo perennemente risonante nei proclami politici, nei comizi sindacali, nei programmi dei partiti. anche una banale riflessione comune alla maggioranza dei cittadini, visibilmente esternata nelle lettere ai giornali.
Se andiamo oltre il generico impegno e guardiamo alla sostanza, le faccende stanno diversamente. Proviamo, ad esempio, a curiosare nelle comunicazioni al Parlamento con le quali i presidenti del Consiglio presentano ciascuno gli impegni del proprio governo. Risalendo per mezzo secolo, troveremo espressioni identiche.
Alcide De Gasperi, parlando alla Camera per chiedere la fiducia (negatagli) nel 1953 per il suo ottavo e ultimo gabinetto ammonì: «deve essere intensificata l’opera di repressione dell’evasione fiscale». Gli successe dopo poche settimane Giuseppe Pella, con un monocolore appoggiato dal centro-destra, fra l’altro impegnandosi a proseguire «l’opera di repressione dell’evasione fiscale». Nel gennaio successivo Amintore Fanfani mise insieme il suo primo governo, garantendo pure «costanti misure contro gli evasori». Gli andò male, perché non ebbe i voti sufficienti. Ce la fece invece Mario Scelba, con un tripartito di centro: promise «un’energica repressione, anche penale, delle evasioni fiscali» (affermazione che, provenendo da chi era apostrofato «ministro di polizia», avrebbe dovuto suscitare terrore negli evasori).
Passiamo ad Adone Zoli, il quale nel ’57 varò un monocolore che ottenne voti nel centro-destra, assicurando «iniziative per la repressione delle eva-sioni». Dopo di lui tornò Fanfani, con un bicolore di centro, che si impegnava per «la severa repressione delle evasioni». Saltiamo alla vita tormentata, nel ’60, del gabinetto di Fernando Tambroni, monocolore appoggiato dalla destra, col «fermo intendimento di perseverare validamente nell’azione per il contenimento e per la repressione delle evasioni». Si noti bene che i termini usati sono spesso ispirati a estremo rigore: repressione, energico, severo, costante_
Sintetico fu il redivivo Fanfani: per il suo terzo governo, detto delle convergenze parallele, nell’estate ’60 garantì l’immancabile «lotta contro le evasioni fiscali». Andiamo a un altro pluripresidente, Giulio Andreotti. Nel ’72, presentando il suo primo gabinetto, un monocolore che non ottenne la fiducia, senza molta originalità promise di «andare in profondità nella lotta contro gli evasori». Pure Mariano Rumor garantì, presentando il suo quinto e ultimo governo di centro-sinistra (’74), «una rigorosa lotta alle evasioni». Ne raccolse il testimone Aldo Moro, con il suo quarto gabinetto, sempre di centro-sinistra, impegnato a una «politica di repressione dell’evasione fiscale». Parole non sostanzialmente difformi da quelle espresse presentando il successivo, e ultimo, governo (monocolore privo di appoggio parlamentare, nel ’76), quando dichiarò che sarebbe stata propria cura «proseguire negli sforzi già intrapresi» contro le «evasioni fiscali».
Siamo arrivati agli anni del compromesso storico fra Dc e Pci, segnati dai governi di Andreotti. Il divo Giulio nel ’76 profetizzò «passi in avanti nella lotta alle evasioni, obiettivo essenziale, prima ancora che sotto il profilo del recupero di materia imponibile, a fini di aumento del gettito, come fatto di giustizia generatore di consenso sociale». Nel ’78, il giorno stesso del tragico rapimento di Moro, Andreotti riprese il concetto: «recupero in cospicua misura delle attuali evasioni fiscali, nel campo sia delle imposte dirette sia delle imposte indirette». Vasto programma, avrebbe commentato Charles de Gaulle. Andreotti non dovette essere del tutto appagato dell’azione condotta, se nel successivo suo governo (il quinto, nel ’79) tratteggiò «una più efficiente lotta all’evasione fiscale con i provvedimenti preparati dal precedente Governo», «portati a rapida completezza dal Governo attuale». Per la storia, al gabinetto mancò la fiducia.
Non fu da meno negli impegni Francesco Cossiga. Presentando nel 1979 il suo primo governo (che diede l’avvio alla stagione definita del pentapartito), s’impegnò per «una sistematica azione di lotta all’evasione». L’anno dopo auspicò, per il secondo governo, un «recupero graduale dell’area delle evasioni», con quell’aggettivo («graduale») che rivela indirettamente le difficoltà incontrate. Gli successe presto Arnaldo Forlani, anche lui con una certa dose di prudenza: promise «la riduzione dell’area dell’evasione». Il repubblicano Giovanni Spadolini fu altrettanto prudente (siamo nel 1981): «L’obiettivo prioritario della politica tributaria è rappresentato dalla riduzione dell’evasione fiscale». Fu più largo di impegni l’anno dopo, col secondo esecutivo: ambiva alla riduzione di «consistenti aree di evasione fiscale». Passarono po-chissimi mesi e tornò Fanfani (il «rieccolo», col quinto governo), giurando un’«azione prioritaria riguardante l’evasione fiscale».
Eccoci a Bettino Craxi. Nel suo primo governo (1983) s’impegnò a continuare «la lotta, che è necessario condurre, contro ogni forma di evasione fiscale»; nel secondo (’86) assicurò di proseguire «nell’azione di repressione dell’evasione dell’Iva». Per una volta, ecco qualcuno che limitava il settore tributario, senza impegni a 360 gradi.
Tornati a palazzo Chigi i democristiani, si segnalarono la promessa di Giovanni Goria (1987) di «combattere a fondo l’evasione»; l’impegno di Ciriaco De Mita (’88) di ridurre «drasticamente, di pari passo, le aree di evasione (particolarmente con azione amministrativa), di erosione e di elusione (con interventi legislativi)»; la promessa del ritornato Andreotti (sesto gabinetto, 1989) di rafforzare «l’azione già avviata per combattere le evasioni fiscali, contro le quali sono altrimenti inutili demonizzazioni e lamentele». Riconoscimento, quest’ultimo, fondato. Però le concrete opere non dovettero essere state soddisfacenti, se lo stesso Andreotti, presentendo il suo settimo e ultimo governo (’91), parlò di «porre in essere un’azione incisiva per il recu-pero dei margini di evasione, di elusione e di erosione delle basi imponibili». Ultimo presidente della prima repubblica, Carlo Azeglio Ciampi (’93) assunse come impegno «la lotta all’evasione, un capitolo amaro per non pochi degli italiani».
Eccoci alla seconda repubblica. Silvio Berlusconi, presentando il suo primo ed effimero governo (1994), dipinse «un’area di evasione e di elusione del dovere contributivo che non ha paragoni nel continente europeo». Lamberto Dini, a capo di un gabinetto tecnico (nel ’95), promise «soprattutto la lotta all’evasione». Non fu da meno Romano Prodi, capo del centro-sinistra, nelle dichiarazioni programmatiche sia del ’96 («intensificazione della lotta all’evasione fiscale) sia nel ’98 («il mio Governo combatterà con la massima decisione e determinazione un livello di evasione fiscale che non ha eguali nel mondo sviluppato»).
Ed eccoci al Berlusconi IV, in carica da due anni. L’impegno aveva sfumature diverse, per la prima volta: «Dobbiamo accrescere la volontà e la capacità di contrastare l’evasione fiscale, ristabilendo però il principio liberale secondo il quale le tasse non sono «belle in sé» e neppure un tributo moralistico al potere indiscusso dello Stato». Però rimaneva la solita solfa (come definirla diversamente?) del contrasto all’evasione. una parola d’ordine che ricorda alla perfezione le gride manzoniane. Le dichiarazioni program-matiche dei governi sono tutte testimonianze «degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità», attribuendo all’evasione fiscale le parole di Alessandro Manzoni rivolte contro la specie dei bravi. Tanti solenni impegni, senza all’evidenza risultati concreti.
Ha ben indicato la situazione Antonio Martino (Libero, 23 maggio): «Quanto poi al contenuto di queste manovre, è anch’esso disgustosamente ripetitivo: c’è sempre un appello alla lotta all’evasione, mitico Eldorado che risolve ogni problema, e l’eliminazione delle spese pubbliche immancabilmente superflue. Quanto alla prima non si ripeterà mai abbastanza che, essendo l’evasione un reato, va combattuta sempre, indipendentemente dallo stato delle pubbliche finanze, non solo occasionalmente quando lo Stato ha bisogno di quattrini. Non solo ma il fatto che venga continuamente reiterata suggerisce che i vari conati non hanno avuto successo e che non sarà quella la via per rimettere in sesto i conti pubblici. Stranamente, nessuno sembra aver mai pensato che l’esiguità delle entrate fiscali non sia da imputare alla malvagità degli evasori quanto piuttosto a un sistema tributario del tutto inefficiente e iniquo. Solo da un’autentica e coraggiosa riforma fiscale pos-siamo attenderci un rimedio, non certo dalle giaculatorie sulla cattiveria dei contribuenti».
In sintesi: per vincere veramente l’evasione fiscale occorre un fisco facile, civile, moderato. Ci vuole quella riforma fiscale che dal ’94 Berlusconi promette e che non si vede mai, neppure con l’odierna manovrona, che invece avrebbe costituito l’occasione d’oro per rifare a fundamentis il fisco italico. Altrimenti, possiamo stare certi che il prossimo governo, quale ne sia il colore politico, tornerà a sbraitare con l’impegno di lottare duramente contro l’intollerabile evasione. Esattamente come da oltre mezzo secolo fanno tutti i governi, della prima e della seconda repubblica, da De Gasperi a Berlusconi, presieduti o aventi come titolari delle Finanze politici di centro, di centro-destra, di centro-sinistra, cattolici, laici. Se siamo ancora fermi agli impegni dei primi anni del dopoguerra vuol dire che la lotta all’evasione è una predica costante, non attuabile per la natura stessa dell’immarcescibile fisco italiano.