MARTA OTTAVIANI, La Stampa 2/6/2010, pagina 5, 2 giugno 2010
TRA GLI EBREI DI ISTANBUL
Barack Obama vuole evitare di assumere posizioni estreme, perché ciò che gli interessa è far avanzare il negoziato in Medio Oriente». Così legge le mosse del presidente Usa sulla crisi di Gaza il politologo della Georgetown University Charlie Kupchan, ex consigliere di Clinton e autore del saggio «How Enemies Become Friends» (Come i nemici diventano amici) sulla genesi delle linee di politica estera di questa amministrazione.
Come giudica la reazione della Casa Bianca al caso della nave pacifista intercettata?
«Obama ha detto di voler "conoscere i fatti" e in questa maniera ha scelto di evitare di prendere posizioni estreme, la scelta che ha compiuto è stata quella della massima cautela».
Perchè ha optato per la cautela?
«Per il semplice fatto che se avesse sostenuto a chiare lettere Israele avrebbe irritato la Turchia, alleata-chiave nella Nato, mentre se avesse condannato esplicitamente Israele avrebbe compromesso i già fragili rapporti con il premier Netanyahu, rischiando di spingerlo lontano dal negoziato diretto con i palestinesi che resta la priorità di Obama. In entrambi i casi sarebbe stato un errore politico. A questo bisogna aggiungere il fatto che quanto avvenuto non obiettivamente è chiaro».
Quali sono i «fatti» che conteranno di più per l’amministrazione?
«Gli interrogativi a cui la commissione di inchiesta indipendente richiesta dell’Onu deve rispondere sono essenzialmente due: chi è stato ad usare per primo la forza e quanto l’esercito israeliano ha contenuto l’uso della forza una volta iniziati gli scontri. Non c’è dubbio che il governo Netanyahu pagherà un prezzo politico, soprattutto in termini di opinione pubblica, per gli errori che sono stati compiuti dai militari nel tentativo di fermare la flottiglia ma è dalle risposte a questi due interrogativi che sapremo l’entità delle conseguenze per Israele».
Quali saranno le conseguenze di questa crisi per il negoziato in Medio Oriente?
«Credo porteranno a valutare la necessità di rivedere l’attuale approccio di un negoziato diretto fra Israele e Autorità palestinese solo sulla Cisgiordania. La scelta di tenere ai margini la Striscia di Gaza non sembra più possibile da mantere. Così come non appare essere nell’interesse di Israele mantenere il rigido blocco economico a Gaza.».
La Turchia ha avuto all’Onu posizioni più ostili a Israele degli stessi palestinesi. Ankara si sta avvicinando all’Iran?
«La politica estera di Ankara guarda più a Est che ad Ovest. I motivi sono due. Primo: l’identità del partito del premier Erdogan, composto in gran parte da gente delle campagne più vicine all’Islam rispetto agli abitanti dei centri urbani. Secondo: il senso di rigetto per l’Occidente scaturito dalla decisione dell’Unione Europea di congelare la richiesta turca di adesione. Il risultato è Ankara che guarda sempre più a Damasco a Teheran, come dimostrato dal recente negoziato sul nucleare iraniano».
Un’altra spina per Obama?
«Non credo che una Turchia più immersa nel Medio Oriente sia negativa per l’Occidente o per la Nato. Potrebbe essere uno sviluppo positivo tanto per Ankara che per l’Alleanza. Molto però si gioca nel rapporto Turchia-Israele, ora teso come mai prima, e su quello Turchia-Ue, che è in sospeso».
Quando ha pesato nel pronunciamento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu il fatto che il blitz è avvenuto in acque internazionali?
«Il testo della dichiarazione mette l’accento sulla necessità di chiarire la dinamica dei fatti attraverso un’inchiesta imparziale. Mi pare un approccio che, nella sostanza, va nella stessa direzione dell’amministrazione americana. E’ molto cauto»./Durissime le parole di Dmitri Medvedev: «Una tragedia senza motivo, morti assolutamente ingiustificabili». Il presidente russo, in conclusione del XXV vertice Ue-Russia di Rostov-sul-Don, ha chiesto che venga condotta «un’indagine con la massima accuratezza» sull’attacco israeliano alla «flotta umanitaria» diretta a Gaza. Ma, aggiunge, «in ogni caso la perdita di vite umane è irreparabile e completamente immotivata». Il vertice ha anche emesso una dichiarazione congiunta per chiedere un’indagine «completa e senza ostacoli».
L’Ue aveva già emesso, dopo una riunione degli ambasciatori dei Ventisette, una dichiarazione attribuibile all’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune, Catherine Ashton, che cominciava con l’espressione del «profondo rammarico per la perdita di vite umane», condannava l’uso della violenza e giudicava «inaccettabile e politicamente controproducente» la continuata chiusura della Striscia e concludeva con un appello a «conseguire una soluzione durevole per Gaza» e ad «aprire immediatamente il passaggio al flusso degli aiuti umanitari».
A poche ore dall’attacco di Israele alla Mavi Marmara il primo pensiero di molti in Turchia è andato a loro, ebrei di fede e turchi di nazionalità. Sono i sefarditi, che vivono nel Paese dalla Mezzaluna da quando era ancora impero ottomano, per la precisione dal 1492, quando la Reconquista di Isabella di Castiglia la Cattolica, e Ferdinando II di Aragona li costrinse alla fuga. Sospesi fra la loro fede e la loro madre patria vivono con apprensione queste ore. La Turchia è la loro casa, ma questo è il momento della calma. Proprio per questo il premier Erdogan due giorni fa ha pensato a loro, sottolineando che i Sefarditi sono «sotto la diretta protezione dello Stato». Come a dire che nessuno nel Paese gli farà mai del male.
Ma la situazione potrebbe scappare di mano, soprattutto a causa degli animi esacerbati. Due giorni fa un ciclista israeliano che partecipava a una competizione internazionale ha rischiato un pugno. Le prenotazioni negli alberghi sono state cancellate quasi tutte. Le autorità della comunità ebraica di Istanbul preferiscono non parlare. Sul loro sito hanno pubblicato un sintetico comunicato stampa con il quale partecipano con dolore alla notizia dell’attacco da parte della marina israeliana. Pochi giorni fa, prima dell’attacco, il rabbino capo della Turchia, Ishak Haleva, rispondendo al quotidiano islamico «Yeni Shafak», aveva definito «inappropriato» fare a lui domande sulla questione palestinese, sottolineando che gli ebrei di Turchia non avevano nulla che vedere con la situazione.
Incontrare i sefarditi in questi giorni non è facile. Si sa che sono circa 20 mila, distribuiti soprattutto a Istanbul e nella zona attorno al quartiere di Beyoglu, fin dai tempi dell’Impero Ottomano punto di riferimento per gente di ogni etnia e religione.
Per carpire qualche informazione sulla loro quotidianità ci si deve rivolgere alla redazione del quotidiano «Shalom», edito in turco e che tira circa 4000 copie. Gli scaffali sono pieni di Cd di musica, libri e giornali. E arriva la prima sorpresa. Sono tutti in turco e in spagnolo antico, la lingua che li contraddistingue e che hanno ereditato dai padri, tramandandola oralmente da secoli. In ebraico ci sono solo le scritte su alcuni oggetti sacri.
«I sefarditi di Istanbul sono fra i pochi gruppi di ebrei che non vivono in Israele a non parlare l’ebraico», spiega Gila Erbes, direttore della testata. Ha un tono pacato. «Mi sento sicura, ma il momento è difficile», ammette. Fuori da quelle stanze, ad Ankara, il premier turco islamico moderato sta tornando ad attaccare lo stato di Israele, parlando di «sanguinoso massacro» e di «punizione necessaria». Il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, sta chiedendo agli Stati Uniti una condanna ferma dell’attacco e tutti i giornali turchi, anche i più liberali, sono usciti con titoli duri contro Tel Aviv. La loro condizione di ebrei in Turchia, a chi non è turco e non conosce la storia del Paese sembra paradossale, invece da loro viene vissuta con grande naturalezza.
«Siamo arrivati qui 500 anni, abbiamo sempre vissuto bene - continua Erbes -. Abbiamo forti legami con Israele e siamo ebrei. Ma Istanbul è la nostra casa». La loro è una quotidianità «tranquilla e discreta», che ha risentito drammaticamente, in termini di sicurezza, in seguito agli attentati di Al Qaeda del novembre 2003, che costarono la vita a 66 persone fra cui 16 ebrei. «Siamo una comunità coesa e organizzata, i più religiosi parlano l’ebraico, la stragrande maggioranza osserva le feste. Con l’attività editoriale del nostro quotidiano e della nostra casa editrice cerchiamo di mantenere viva la nostra cultura e le nostre tradizioni. Soprattutto lo spagnolo antico la cui conoscenza purtroppo si sta perdendo. Abbiamo 4 centri fra parte europea e parte asiatica che usiamo per attività culturali e che difficilmente sono riconosciuti da chi non li conosce, lì allestiamo spettacoli e creiamo momenti conviviali per la comunità».
Una vita discreta ma non occulta. Uno dei cori di bambini più famosi, le Estreyikad de Estambul, sono composte da bambini sefarditi fra i 9 e i 14 anni. Ogni anno Istanbul partecipa alla Giornata europea per la promozione della cultura ebraica, a cui partecipano soprattutto persone esterne alla comunità. Una delle sinagoghe più belle di Beyoglu è la sinagoga italiana, a poca distanza dalla Torre di Galata e dove le vetrine di un venditore di arredi sacri ebraici convivono pacificamente da decenni con quelle di un venditore di kebab. Uno dei luoghi di culto più antichi e rappresentativi, dove appena due settimane fa è stata celebrata in un trionfo di rose bianche la festa dello Shavuot, che ricorda la consegna a Mosè delle tavole con i dieci comandamenti.
Di sinagoghe a Istanbul se ne contano a decine anche perché fino all’inizio del XX secolo i sefarditi qui erano circa 150 mila. Hanno una scuola, un ospedale sul Corno d’oro dove si curano anche tanti turchi. Il ristorante di cucina kosher ha chiuso di recente perché travolto dalla crisi. Una vita che corre tranquilla con i suoi ritmi e alcune tradizioni locali, soprattutto nel campo culinario e musicale, dove i sefarditi hanno melodie e piatti diversi da quelli ashkenaziti. «La cosa più strana - conclude Erbes - è quando andiamo in vacanza in Spagna e iniziamo a parlare: ci guardano come se tornassimo dal passato». Sorride. Che qualcosa possa cambiare per i sefarditi non ci vuole nemmeno pensare.