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 2010  giugno 03 Giovedì calendario

ARGOMENTI DI: ROSARIO ROMEO, DAL PIEMONTE SABAUDO ALL’ITALIA LIBERALE, EINAUDI, TORINO 1963 (2)


Terrore per l’avvento della Monarchia di luglio. Carlo Alberto, benché consigliato diversamente dal suo ambasciatore a Parigi de Sales, conclude l’alleanza militare con l’Austria, di cui si discuteva fin dal 1829 (23 luglio 1831) «non solo in vista di un attacco armato francese contro il Piemonte, ma anche di una eventuale opposizione del governo di Parigi all’intervento di truppe austriache "dans les Etats Sardes sur l’invitation du Roi, contre une révolution éclatée dans l’interieur, ou bien d’excursion d’exilés"» (42).

Desiderio di Carlo Alberto e dei suoi di far guerra alla Francia (42). Erano così insistenti che Metternich a un certo punto (metà del 1833) si spazientì con Pralormo, ministro sardo a Vienna: «En depit de toutes les phrases du monde, il faut bien reconnaitre qu’il y a en Europe deux faits réel et existants: ce sont le trone de Juillet et la révolution d’Angleterre. Je voudrais de bon coeur et certes il serait nécessaire que ces faits n’existassent pas; mais ils existent et il faut se résigner à vivre avec eux» (42-43).

Carlo Felice non era riuscito a far escludere Carlo Alberto dalla successione grazie all’opposizione delle grandi potenze compresa Vienna (43).

Carlo Alberto alla fine del 1823 aveva giurato che non avrebbe mai concesso una Costituzione (43)

Sul carattere di Carlo Alberto e il suo misticismo politico-religioso vedi 43-44

Sottomissione all’Austria finché agli esteri c’è de La Tour. Il conte Pralormo ammette col Palmerston che il Piemonte era diventato «per così dire una provincia dell’Austria» (44)

Nel 1834 «Carlo Alberto aveva rifiutato un progetto di lega italiana avanzato da Ferdinando II di Napoli per evitare di porre lo Stato borbonico sul medesimo livello politico del Piemonte (44)

Primato legittimista del Piemonte e sostegno a tutte le cause antirivoluzionarie (duchessa di Berry, don Carlos, Michele di Portogallo, Sonderbund). Rottura con la Spagna dal settembre 1836 al settembre 1839. Impossibilità di un’amicizia con l’Inghilterra. Ergo più stretta dipendenza dall’Austria, che finirà solo nel 1840 (45).

Congiura dei Cavalieri della Libertà, di tipo massonico, che si proponeva di deporre o uccidere il re e di innalzare al trono il Carignano. Scoperta e dipanata fino in fondo grazie alle rivelazioni del Bersani (suo principale organizzatore) del Ribotty e del Brofferio (46)

Lettera del Mazzini a Carlo Alberto (46)

Inizi: nega l’amnistia, il Consiglio di Stato (1831) è provvedimento puramente amministrativo approvato anche da Vienna perché utile alla stabilità interna, riconferma i vecchi attrezzi dell’assolutismo come Thaon de Revel governatore di Torino, La Tour agli Esteri, Lescarena agli Interni, però Barbaroux alla Giustizia e il conte Caccia alle Finanze, sicché sin da allora si potè parlare della «double influence qu’on voit agir sur les conseils du roi» (Bombelles, luglio 1831) (46-47).

Sentimenti di Carlo Alberto: coscienza dell’inaffidabilità del popolo («la crainte est le seul bien qui nous tient ensemble»), «intensa avversione per i rivoluzionari» che disprezza e teme, persuaso «che ne sarebbe tosto o tardi la vittima», convinto paladino della Chiesa. Questo spiega la ferocia della repressione contro i democratici nel 1833 (47-50).

Mazzini e la nascita della Giovine Italia («il primo movimento democratico a carattere davvero popolare del Risorgimento») (48-49).

Come e perché la Giovine Italia ebbe gran successo in Piemonte, irradiandosi da Genova (49)

1° giugno 1833, Carlo Alberto dispone che tutti gli implicati siano sottoposti al giudizio dei tribunali militari «ancorchè estranei alla milizia» (49-50)

Gli errori di Ramorino nella tentata invasione della Savoia (anno 1834) (50)

Carlo Alberto insiste nel diario sul carattere sanguinario della Giovine Italia, è convinto di portare avanti una missione quando ordina che non si inoltrino domande di grazia e che le condanne a morte siano eseguite immediatamente. «Di questo stato d’animo era facile profittare agli uomini del partito reazionario, decisi a scavare un abisso tra il re e i liberali, e a valersi dei suoi terrori e della sua esaltazione fanatica per meglio dominarlo; mentre la stessa Austria, a giudizio anche di taluni esponenti della classe dirigente piemontese, non vedeva di malocchio gli eccessi sabaudi, ai quali si contrapponeva la relativa mitezza e la rigida legalità che essa ostentava nei suoi domini, allo scopo di staccare dalla nazione i principi italiani ed averli più sicuramente sotto controllo. E certo i processi scatenarono un’ondata di avversione contro la monarchia sarda in tutta l’opinione liberale europea e suscitarono l’indignazione anche di elementi conservatori» (51).

Giudizio di Cavour (23 gennaio 1834): «Je ne sais plus sur quel appuis repose le pouvoir actuel. L’armée est degoutée et sans confiance dans ses chefs, l’administration entretient généralement des sentiments hostiles à l’ordre des chose actuel, la noblesse est mécontente, la magistrature blame hautement la marche que l’on suit, et les masses, lorsq’elles ne son pas insouciantes, sont irritées contre le pouvoir tyrannique et faible qui les vexe en leur inspirant le plus profond mépris» (51).

«Furono quelli gli anni del più pieno dominio della cricca ciecamente reazionaria e clericale sulla corte di Torino, che culminò nella chiamata a capo della polizia, da parte del L’Escarène, di quel tristo personaggio che era monsignor Tiberio Pacca, già resosi colpevole di falso e peculato al servizio pontificio. Solo quando gli abusi da costui perpetrati giunsero all’estremo, con la tragicomica denuncia al re di una pretesa congiura nella quale si volevano implicati i maggiori personaggi del regno, si ebbe il suo licenziamento e quello del ministro L’Escarène, e con esso anche un lieve alleggerimento e un ritorno a una più distesa atmosfera nella capitale torinese» (52)

Potere dei nobili, scandalo quando alle feste viene invitato qualche borghese, scandalo quando Carlo Alberto fa (raramente) sedere qualche borghese alla sua tavola, «si riconosca la nobiltà; sia presso al Trono, ne riceva essa i primi splendori; sia quasi un velo per cui passino i raggi della Maestà Sovrana, li rifletta sulle altre classi, e la renda più augusta» (Solaro), mentre il La Tour «tenait aux anciennes idées sur l’importance d’une aristocratie, l’utilité des majorats et des fidéicommis, la représsion en matière religieuse, le mantien des anciennes lois sur les rapports avec l’Eglise» (52-53)

La missione divina del trono apre le porte ai gesuiti (53). «Contro la istruzione laica, intesa a sradicare la religione per sostituirvi "una virtù umana senza radice, senza usbergo, senza alcun conforto", e a creare "nuovi desideri e nuovi bisogni per rendere i popoli inquieti e infelici", i sostenitori del vecchio mondo sostenevano l’ideale quietistico e antiliberale di una educazione tendente a che "ognun trovasse nella condizione in cui nacque la propria felicità"» (54).

«Gli ordini religiosi, Passionisti, Religiose del Buon Pastore, Benedettini, Adoratrici perpetue, Certosini, Teresiane, Domenicani, Carmelitani scalzi e via dicendo furono arricchiti di nuove case, sostenuti di appoggi finanziari e politici». Ristabilita la nunziatura pontificia a Torino, con parte delle spese a carico del governo piemontese, nel codice civile «si fece esplicito omaggio alla religione cattolica e alla sua particolare posizione come religione dello Stato rispetto agli altri culti; il matrimonio rimase dominio del diritto canonico; lo stato civile venne lasciato al clero; il diritto d’asilo venne conservato nella nuova legislazione penale e perfino restaurato il foro ecclesiastico; la censura religiosa ebbe liberissimo campo; antiche limitazioni ai contatti dei vescovi con Roma vennero soppresse [...] "aucune protection n’était plus valid aupres du Roi que celle de éveques et des moines" (Des Ambrois)» (54).

Altre prepotenze del clero in 55 (caso Heldewier, ecc,), condanna del Times. Tutto questo spiega la violenta esplosione antigesuitica del 1848.

Arresti senza giudice, e talvolta l’arrestato veniva mantenuto in cella anche dopo l’assoluzione, struttura di repressione e dispotismo fino ai piccoli paesi o villaggi (56)

Ma Carlo Alberto vuol «conservare svecchiando [...] così si promulgano nuovi codici prima quello civile, e successivamente il penale e quelli processuali che finalmente ponevano rimedio al caos legislativo e alle barbare procedure restaurate nel 1814» Molte restrizioni, però l’ordinamento giudiziario era progredito (57)

Soppresse fra il 1836 e il 1839 le giurisdizioni signorili in Sardegna (57-58). «Queste operazioni si rivelarono assai gravose per gli antichi vassalli, a causa dei molti abusi che gli ex feudatari riuscirono a far convalidare dalla magistratura piemontese, e diedero luogo a proteste ed agitazioni nelle campagne» (58).

«Nel 1834 il dazio sul grano veniva ridotto da 9 a 3 lire al quintale, e successivamente si praticarono ulteriori riduzioni sino a portarlo, nel 1840 a 2 lire al quintale per le importazioni via mare e a 1 lira per quelle via terra; finché la tariffa del 1847 fissò stabilmente il dazio a 3 lire al quintale» (58)

1835. Soppresso il divieto di esportazione della seta greggia e ridotto il dazio di esportazione delle sete lavorate (rersistenze di industriali e proprietari terrieri uniti). Ridotti i dazi sulle importazioni di zuccheri, sul carbon fossile, sui metalli, sui tessuti (58)

«Una politica assai prudente aveva permesso di risanare interamente le finanze dello Stato, e consentito, nel decennio fino al 1845, una serie di costanti avanzi di bilancio, mentre le entrate aumentavano gradualmente da un 70 milioni nel 1831 a circa 84 milioni nel 1845, per poi decrescere lievemente in seguito alla diminuzione dei proventi delle dogane, determinata dalle ultime riduzioni delle tariffe; e questi avanzi di bilancio concorsero in misura primaria, insieme con i fondi dei prestiti, a costituire una "cassa di riserva" che Carlo Alberto voleva soprattutto destinata a fronteggiare esigenze di guerra, ma che in qualche misura venne adoperata per finanziare opere di pubblica utilità e, poco avanti il 1848, i primi investimenti in costruzioni ferroviarie. E tuttavia, l’antiquato criterio finanziario che presiedeva al concetto stesso di "cassa di riserva" veniva criticato vivacemente dai fautori di una più moderna politica economica, come il Petitti, che lamentava si lasciassero inoperosi nelle casse 50 milioni mentre il governo pagava larghi interessi ai propri creditori, senza pensare né a una conversione della rendita né a più larghi investimenti in opere pubbliche. In opere pubbliche o in genere attinenti allo sviluppo della vita economica si spesero, dal 1831 al 1846, 45 milioni e mezzo di lire; e in particolare vanno ricordate le somme impiegate per l’acquisto al demanio di canali di irrigazione, che permise l’erogazione dell’acqua ad assai buon mercato, e i più che 12 milioni per le ferrovie. E tuttavia, se si tiene presente che questi ultimi appartengono interamente agli ultimi due anni 1845-1846, quando un nuovo indirizzo cominciava già a prendere il disopra sotto la pressione delle forze liberali, si deve constatare che i 33 milioni restanti, distribuiti nel quindicennio, rappresentano una media di poco più che due milioni l’anno su una spesa statale complessiva che oscillava, come si è visto, fra i 70 e gli 84 milioni, cioè appena il 2,4-2.8% del totale: percentuale che appare assai esigua, e caratteristica di una politica economica ancora antiquata, quando si pensi che, ad esempio, nel primo quindicennio unitario la sola spesa per le opere pubbliche oscillò intorno al 10% della spesa statale per raggiungere il 15 e il 20% nel decennio 1877-1887: per non parlare del decennio cavouriano nello stesso Piemonte.
«Si spendevano invece ben 30 milioni l’anno per l’esercito; e tuttavia, neanche qui i risultati furono grandissimi, come poi si dovette constatare nel 1848. Le riforme di Carlo Alberto e del Villamarina condussero alla eliminazione pressoché totale degli ufficiali "provinciali" o di complemento, e modificarono il reclutamento della truppa, portando così alla formazione di un esercito di ufficiali di carriera, educati a rigorosa fedeltà dinastica, e di riservisti contadini, nei quali si travasavano interi gli spiriti conservatori e antiliberali delle campagne; e indubbiamente si giunse adesso a fare delle forze armate uno strumento fidato della Corona, sì che scomparvero i timori e i cedimenti di cui si era avuto prova ancora nel 1833. Ma alla loro efficienza e preparazione effettiva per la guerra erano di ostacolo "i difetti dell’amministrazione militare. minuta, permalosa, scribacchiante, torpida, o quelli ancora più gravi dell’istruzione militare, ridotti a materiali e minute esercitazioni, secondo una ’teoria’ stampata, senza principi scientifici e storici, senza emulazione"; e pessimi, a giudizio di un competentissimo osservatore contemporaneo, erano anche gli studi dell’Accademia militare, "dalla quale uscivano, generalmente parlando, giovani ottimi, coraggiosi e devoti al principe, ma confusi e stufi di studi fatti in fretta, per lo più a memoria, senza scopo chiaro" (Ricotti, Rodolico e Pieri)» (58-60)

Sulla burocrazia piemontese 60

Quindi Piemonte più arretrato degli altri stati italiani, da cui contrasti nel 1848 in 61

«La Tour, il vincitore di Novara, aveva proposto al re, nel 1814, l’adozione di un regime costituzionale, a base bicamerale», badando però bene al corpo elettorale che avrebbe espresso la camera bassa (62)

Costituzione di Sicilia del 1812 come modello (62)

L’equivoco del modello inglese, operante in una società «già modernamente articolata» mentre in Piemonte «la preminenza politica della nobiltà sarebbe servita a proteggere e a garantire un insieme di rapporti sociali notevolmente arretrati», senza borghesia. Cammino da fare per far coincidere il vecchio costituzionalismo col moderno liberalismo (62).

Cesare Balbo. In nome della fedeltà alla dinastia, aveva rifiutato di partecipare al moto del 1821 (62-63). Inazione politica per un quarto di secolo. Riflessione politica: la storia in decadenza fino al Cristianesimo, poi riprende, no al pensiero settecentesco che isola «il genere umano dal mondo superiore», il secolo XIX deve riconquistare alla storia «una Provvidenza, una Cristianità, una direzione superiore alla terrena». Concetto di "svolgimento" «che sta al centro della storiografia cattolico-liberale» e di nazione esaltato dallo studio della ribellione spagnola a Napoleone, però senza concetto della "missione provvidenziale" delle nazioni. «Vivissimo in lui il senso della comunità europea e cristiana, e l’aspirazione che in essa l’Italia potesse inserirsi con un proprio volto». Però, niente primato (dissenso con Gioberti) (63) perché ciascuna nazione può vantare suoi primati in settori particolari. E anzi l’Italia deve recuperare «prima di arrivare a primati si vuol arrivare a parità e la prima parità con le nazioni indipendenti è l’indipendenza», lui darebbe via tutti i Dante e i Michelangelo «per un capitano che si traesse dietro dugento mila italiani, a vincere od anche a morire, a provar in qualunque modo, in qualsivoglia guerra, l’esistenza presente, efficace del coraggio italiano». (64) Indipendenza sì, però aderendo allo Stato monarchico piemontese con tutti gli annessi e connessi del sistema aristocratico: «Per Balbo non v’era dubbio che la vita politica e la direzione dello Stato spettassero in modo particolare al ceto socialmente dominante: "come il lavorare la terra è del contadino; e i legni, del legnaiolo; e il ferro del magnano; ed ogni mestiere d’ogni operaio; così di chi ha sostanze da vivere senza mestiero nessuno, è di servire alla patria ed al principe ne’ pubblici uffici". E per lui inizialmente ceto dominante è ceto terriero, nucleo fondamentale della nobiltà: gli pareva anzi "non tanto irragionevole quell’opinione antica che il mercatare o tener banco, o simili occupazioni, derogano alla nobiltà": esse sono interdette "dalla pubblica opinione ai nobili affinché elle non li distraggano dall’ufficio loro, sacro ancor esso, di servire alla patria e al principe"; e lodava il "passar dalla campagna agli uffici e dagli uffici alla campagna". "Uffici" preclusi invece alla "plebe", che "ha a pensare alla vita quotidiana"». La nuova aristocrazia fatta di «industriali, commercianti, capitalisti», cioè in definitiva il ceto medio (65) «non la sola aristocrazia di schiatte, non quella di ricchezze, e nemmeno l’intellettuale solamente, ma tutte e tre insieme, le quali (sia bene o male) formano la classe, la casta (come si suole nomare) de’ governanti nostri». Contrario ad ogni agitazione popolare, contro le società segrete, per la libertà (sentimento che gli impedisce di finir reazionario), libertà «è operosità; operosità moltiplicazione di forze; la servitù (66) è inoperosità, scemamento ed anche annientamento di forze ad ogni uomo, ad ogni complesso d’uomini». Libertà e cristianesimo insieme (nel cristianesimo «c’è un valore dell’individuo che non può essere sacrificato al bene presunto della collettività senza mancare al primo dei doveri politici del cittadino»). Sulla libertà: «Non che alla parte, nemmeno alla patria non è lecito sagrificare la propria opinione. Perciocché, come l’opinione di ciascuno nella parte è un modo di vedere il ben di questa, così questa stessa non è che un modo di vedere il ben della patria; ondeché in somma l’opinione politica d’ogni uomo sincero non è che il complesso di ciò ch’egli crede buono alla patria; e il voler uno sagrificar le opinioni proprie, o far sagrificar le altrui alla patria, non è che una risoluzione o una esortazione di sagrificare il bene della patria alla patria; cioè un assurdo, un’antinomia, una petizione di principio» (67). Da cui opinione positiva sui partiti politici («le parti sono non solamente una necessità, ma sono una necessità non infelice»). (68) «"La perdizione d’Italia fu d’aver confuso la libertà e l’indipendenza, e d’aver proseguito le mille varie e vane idee di quella, anziché il fatto di questa". Ed era indipendenza da conseguire non già con l’appello alla guerra di popolo, alla aspirazione nazionale verso l’unità: ma con l’intervento dello Stato, esercito e diplomazia piemontese» (amletismo del Balbo).

Vicinanza tra Cavour e Balbo (69), per lui il problema era la «civilisation». Il peggio della monarchia di luglio era stato, per Cavour, l’aver fatto nascere «un parti frenetique, féroce et absurde, qui pursuivant un chimère, veut, en empiétant sur l’avenir, faire triompher a tout prix un système maintenat impossible, et qui pour cela pousse la société dans un chaos affreux, d’où elle ne pourrait se relever que par le moyen d’un pouvoir absolu et brutal, despotique ou aristocratique» (lettera a Cecilia de Sellon, 31 maggio 1833). «Alla vigilia del 1848 affermava di non essere "plus libéral qu’un grand nombre de ceux qui occupent les avenues du pouvoir" (lettera a Costa de Beauregard, ottobre 1847). (70)

«In sostanza, il partito moderatamente liberale che era venuto formandosi nelle file dell’aristocrazia piemontese non riuscì fin dopo il 1840 a impostare una qualche azione politica la cui prospettiva andasse al di là della modesta opera riformatrice che taluni membri del governo già svolgevano nell’ambito delle istituzioni esistenti. Altra e diversa la sua funzione in questi anni, che fu essenzialmente di preparazione culturale e di ammodernamento sociale , in relazione a tutto il contemporaneo svolgimento della vita piemontese. Ma questo svolgimento portava con sé un processo di allargamento dei ceti aspiranti alla direzione politica che finiva per mettere in crisi la possibilità, per la stessa aristocrazia, di continuare a proclamarsi unica o più autorizzata classe dirigente» (70-71)

Crisi economica durante la Restaurazione: «Ancora verso il 1830, il commercio estero raggiunge appena gli 80 milioni, di cui un 45 all’esportazione; le merci negoziate nel porto franco di Genova scendono da 88 a 63 milioni nel 1831». Poi ripresa, in modo netto e visibile nell’agricoltura (nonostante i cattivi rapporti con la Francia avessero nel primo periodo danneggiato le esportazioni, con più incertezza nell’industria dove dominano carbone e macchina a vapore, o nel setificio che risente «in misura crescente le conseguenze negative di una attrezzatura tecnica arretrata che rende più ardua la conservazione dei tradizionali mercati di esportazione, contesi da una concorrenza sempre più efficace». (71) Il porto di Genova riprende «grazie all’abolizione dei diritti preferenziali a favore dei legni nazionali» e progressi anche nella grande navigazione oceanica, specie verso l’America Latina». (72)

Durante il regno di Carlo Alberto furono conclusi 26 trattati di commercio (72)

La produzione agricola passa dagli 8.460.000 ettolitri del 1830-1835 ai 12.700.000 del 1850-52 (72).

Miglioramenti qualitativi nel vino (produzione stabile, oscillante intorno ai 2.800.000 ettolitri (72).

Foraggi cresciuti in un secolo di otto volte (da 1.200.000 quintali nel 1750-55 a 10.007.000 nel 1850-52), prova «della grande trasformazione tecnico-agraria realizzatasi specialmente nelle province e nelle zone irrigue di Novara, Vercelli, Alessandria e favorita da un’intensa opera di canalizzazione svolta anche da parte dello Stato in quelle regioni (72).

Nuovo ceto rurale formato in parte «da antichi mezzadri», in parte «da una crescente borghesia di medi proprietari» appassionati di agricoltura e magari contemporaneamente esercitanti una qualche attività pubblica o professione liberale, come Giovanni Lanza, «figlio di un negoziante di ferramenta e poi medico, che tuttavia dedicò molta della propria attività a un podere di 33 ettari per la più parte a vigneto, nella zona di Casale, venutogli dal patrimonio familiare. Egli fu tra i primi a introdurre nel Monferrato aratri di ferro, seminatrici, estirpatrici; studiò e scrisse d’agricoltura; si occupò anche dell’educazione agricola dei ragazzi poveri, mirando ad ottenere, scriveva, "il miglioramento della nostra agricoltura col miglioramento morale ed intellettuale dei contadini"; "sin d’allora egli prese a frequentare, come frequentava poi anche negli ultimi anni della sua vita, tutti i mercati e le fiere della sua città, ove, confuso colla folla degli agricoltori e dei negozianti, si compiaceva di osservare, interrogare e discutere di cose agricole». Somiglianze con Cavour a Leri (72-73).

«Il progresso delle attività agrarie e commerciali si traduce anche in un crescente sviluppo della vita cittadina, specialmente a Torino: sviluppo che salta evidente agli osservatori contemporanei già a vedere "che qui la città si prolunga a vista d’occhio, che i palazzi e le case sorgono per incanto, che non v’è angolo di Torino dove non si fabbrichi" (Paravia 13 dicembre 1834) e che si traduce in un miglioramento generale del tenore di vita, che in complesso il Lanza giudicava superiore a quello francese» (74)

Sviluppo dell’editoria ad opera di Giuseppe Pomba (75)

Attività e significato dell’attività di don Bosco, Cottolengo, Roberto d’Azeglio, i due Barolo. Cavour sulla beneficenza: «sans l’influence que la charité exerce sur les classes malheureses celle-ci ne soumettraient pas longtemps paisiblement à leur sort, dans un état où l’on a renoncé à l’action de la force materielle comme action de gouvernement» (75)

Lorenzo Valerio, «borghese e antiaristocratico, fondatore delle "Letture popolari" (continuate poi dalle "Letture di famiglia"), che nel 1848 apparirà fra i più accesi sostenitori della "democrazia"» (76).

L’arcivescovo Fransoni e il Solaro, «sospettosi dei progressi che in tal modo compivano le idee del secolo; ovvero i democratici alla Brofferio, i quali mal tolleravano che in nome di piccole riforme e miglioramenti si abbandonassero i grandi ideali politici e le aspirazioni a un radicale rinnovamento in senso popolare» (76).

Valerio, nel primo numero de "Le letture di famiglia" (12 marzo 1842) dice di voler lavorare affinché «tutte le classi della società si guardino come solidarie, e si stringano in un nobile sentimento di concordia e di fratellanza, noi diremo ai poveri la carità e la beneficienza dei ricchi, ai ricchi le virtù ignorate, la vita laboriosa, i bisogni dei poveri, e diffonderemo i principi di carità e di morale che soli possono fare gli uomini felici». In realtà Massimo d’Azeglio ritrae la divisioni della società piemontese. In Piemonte, osservava, «l’istinto della gerarchia vi domina l’intera società. Dal re all’ultimo e più umile dei cittadini, dalla corte al trivio la gerarchia fa sentire il suo potere, estende la sua influenza. Le divisioni generali espresse coi nomi di nobiltà, borghesia, popolo e plebe, che bastano altrove, non bastano in Piemonte, e si suddividono in altre classificazioni, che soltanto può conoscere chi abbia lunga esperienza del paese. Vi sono affinità come repulsioni, simpatie come ripugnanze, da nobili a nobili, da borghesi a borghesi, da popolani a popolani che hanno le loro radici prima di tutto in quella triste eredità del padre Abramo, la superbia; in secondo luogo (la superbia è pure d’ogni paese) l’hanno in quegli antichi ordini ai quali questa superbia ha potuto, come suole l’edera alle antiche costruzioni, meglio appiccarsi e stringersi colle sue barbe». (77)

«Man mano che ci si accosta al 1848 il conflitto tra la borghesia e la nobiltà, finora detentrice esclusiva del privilegio politico e sociale, andrà piuttosto aggravandosi, fino ad esplodere in forme assai vivaci nel corso del 1848-49. Incidenti occasionali venivano attribuiti dai contemporanei all’"avversione che incomincia a bollire fra noi della borghesia contro la nobiltà" (Paravia). Fra il 1847 e il 1848 gli indizi verranno moltiplicandosi. "Io non credo lontana in questo paese una lotta delle classi" scriveva nel novembre 1847 l’inviato inglese, Abercromby, in un dispaccio ufficiale al Palmerston; e qualche anno dopo gli faceva eco il suo collega napoletano scrivendo che "qui la lotta è tutta fra i nobili e i non nobili, fra l’aristocrazia e la borghesia, dappoiché sino a questi ultimi anni ancora, questa era da quella tenuta in nessun conto: la prima occupando tutte le cariche, godendo tutti i possessi privilegiati, tenendosi interamente separata dalla seconda, dalla quale si distingue, cosa singolare, sino per il modo di parlare"». (77-78)

25 agosto 1842. Con regio decreto si approva la fondazione dell’Associazione agraria. Ottobre 1843: i soci sono duemila. 1848: i soci sono 2.900. «Fin dall’inizio si profilò l’ostilità dei membri più più conservatori dell’Associazione al tentativo di allargare il campo delle discussioni della società al di là delle mere questioni tecnico-agrarie. Al contrario, gli elementi politicamente più liberali riuscirono a trasformare l’Associazione, che comprendeva i più attivi esponenti del nuovo Piemonte, in organo delle aspirazionie idealità, anche politiche, del paese» (78).

Contrasto tra Cavour, che voleva far comandare i nobili, e Valerio, che voleva una condizione di assoluta parità tra nobili e borghesi. Valerio punta sulle province «dove frequentemente recavasi fra i popolani agricoli ad ingaggiare proseliti, i quali venivano, in qualità di soci, ad arruolarsi nell’Associazione agraria e dei quali ei sapea farsi forte negli armeggiamenti che nei convegni di quella società furono le prime prove del suo tribunato». Soprannominato poi per questo Cajo Gracco. Altrettanto attivo fu Giovanni Lanza (questi erano anche detti "liberali esagerati"). «Venivano così gettandosi le basi di quello che sarà il Partito democratico del 1848 piemontese». Intervento del governo nel 1846, che avoca al sovrano la nomina del presidente (78-79).

Lettera di Carlo Alberto all’Associazione agraria riunita a congresso a Casale nel settembre 1847 «nella quale il re apertamente manifestava la sua aspirazione a combattere una guerra di indipendenza italiana: con effetti grandiosi su tutta l’opinone liberale del paese» (79).

Il Solaro, persuaso che il Piemonte avesse «"una nazionalità sua propria, cui vergogna sarebbe porla in oblio, tristizia il rinunziarvi... I piemontesi [non] hanno mai pensato che dirsi dovevano Italiani per avere nome tra i posteri... Confonderci con l’Italia è scemare la propria gloria, è confondere nei flutti dell’Adriatico le acque del Po, che vi perdono, come l’ultimo dei ruscelli, il nome"; ed altri devoti servitori della monarchia subalpina come Alessandro Di Saluzzo si chiedevano se i nuovi ideali di nazionalità italiana potessero generare virtù politiche e morali di forza e serietà pari al concreto e tradizionale amore per il re e il paese che avevano illustrato il vecchio Piemonte» (80).

Campagna delle Letture popolari perché si parlasse in italiano (80-81). Gallomania del Gioberti, erede del misogallismo dell’Alfieri (81). Balbo: «I nostri vecchi ancora dicevano partendo di qua a Levante che andavano in Italia» e perciò «l’amore all’Italia e al suo nome, il desiderio delle cose sue, la partecipazione alle sue opinioni, paiono ancora adesso novità, e novità pericolose e scandalose» (81). Prova della volontà di italianizzazione: rapporti stretti, a livello culturale, con Firenze e Napoli (82). Desiderio di una Storia d’Italia, importanza perciò del Sommario del Balbo.

«Il Primato giobertiano nacque dalla generale atmosfera che la cultura del moderatismo liberale aveva diffuso in tutta la penisola, contribuendo ad accentuarla e ad avviarla in parte verso nuovi indirizzi. L’opera del filosofo torinese trascende interamente, nella sua genesi e nelle sue finalità, il quadro della storia regionale subalpina, per acquistare il suo vero significato solo nel quadro complessivo del Risorgimento (83). Scarsa chiarezza e scarsa sincerità del tentativo giobertiano. L’appello a Roma però «superava d’un tratto l’opposizione finora perpetuantesi tra cattolicesimo e movimento nazionale, e scompaginava radicalmente gli schieramenti politici esistenti [...] attirando nelle file liberali molti che finora il cattolicesimo aveva legato all’unico fronte dell’assolutismo». Gioberti confessava di aver voluto «tacere alcune verità a ciò l’esposizione delle altre corresse liberamente, specialmente verso i preti, i frati, fratacci che io mi son proposto di conquistare alla civiltà» (84).

«La celebre tesi del Balbo, che la soluzione della questione italiana dovesse attendersi dall’"inorientamento" dell’Austria, cioè da un suo ampliamento nella valle del Danubio ai danni dell’impero turco, che le avrebbe consentito di abbandonare le province italiane, non era nuovo in realtà nella tradizione diplomatica piemontese» (accennato fin dal 1829). Ripreso nelle Speranze, sfiducia del Balbo in un moto insurrezionale (oltre tutto non gli piacciono), l’Italia deve però prepararsi, uscire dalla sua pigrizia, missione cristiana anche dell’Austria che allargandosi in oriente terrà a bada la minacciosa Russia, «vera oppositrice agli interessi universali». Regno unitario utopistico, idem le repubblichette medioevali, bene la federazione senza Austria, no al primato giobertiano e alla federazione con Roma (85-86)

Tentativo del d’Azeglio di prender contatto con i settari romagnoli (1845) e famoso colloquio col re (86).

Gioberti criticato per le lodi al Papa si rifà coi Prolegomeni al Primato e col Gesuita moderno (il Dio dei gesuiti è per molti rispetti un uomo...) (87). «La campagna antigesuitica agevola la riunione attorno al Gioberti anche di uomini "democratici" come Lorenzo Valerio, al quale Gioberti giungerà a scrivere che, se avesse dovuto "eleggere tra la cacciata degli Austriaci e quella dei padri, io m’atterrei agli ultimi, perché gli Austriaci senza i gesuiti poco nocciono e poco dureranno; laddove i gesuiti, anco senza gli Austriaci, son potentissimi, avendo il dominio di molte coscienze» (88).

Solaro subornava gli operai di Losanna dove si stampava Il Gesuita moderno «per avere i fogli stampati dell’opera e rimetterli ai gesuiti di Torino», Carlo Alberto finanziò la risposta al Primato del gesuita Francesco Pellico (88).

Ascesa di Pio IX moltiplicatore (88)

«Il giro accresciuto dell’attività economica in questi decenni rendeva qui più sensibile il problema di un allargamento del mercato verso oriente, specie per certe merci come i vini piemontesi» (89, quindi le ferrovie eccetera). Barante nel 1831: «le reve des libéraux n’est pas la résurrection de Genes, mais l’unione de la Lombardie au Piémont. Leur commerce en serait ainsi considérablement accru. Genes deviendrait le port d’un très grand royaume, riche, fertile, produisant et consommant beaucoup» (89).

Dichiarazione del 1840, ministro Villamarina: «Pourquoi maintenons nous en temps de paix un ètat militaire si dispendieux et aussi charge du pays? Apposamment pour faire une guerre qui nous soit avantageuse quand des circostances favorables se présenteront... pou arracher bongré malgré quelques provinces à la Maison d’Autriche... C’est la nature des choses qui fait de la France notre alliée naturelle contre l’Autriche notre naturelle ennemie» (90).

Problema dei buoni rapporti franco-austriaci instaurato dopo l’ascesa di Guizot (90-91)

Questione del sale in 90-91. Timori di Carlo Alberto per «l’entusiastico appoggio della popolazione», Carlo Alberto sempre più ostile man mano che l’agitazione cresceva «Egli restava pur sempre dominato dal mistico ideale di riunire le sue ambizioni politiche a una causa che avesse schietto colore di religione: e appunto per questo avrebbe visto con gioia l’abbinamento delle direttive tradizionali di espansione della monarchia con la lotta in difesa del pontefice, come parve per un momento possibile nel momento dell’occupazione austriaca di Ferrara». Tutto finito con l’intesa Francia-Austria contro l’Inghilterra (matrimoni spagnoli) (91). Sui liberali, che premevano sempre di più (ottobre 1847): «les libéraux m’adressent tour à tour des complimens et des injures, mai je sais qu’au fond ils me détestent cordialement» (91)

«Ma ormai negli ultimi del 1847, a Torino, come in gran parte delle altre città italiane, l’agitazione degli spiriti aveva raggiunto il suo apice: "une animation inaccoutumée se voit en tout. On parle, on va, on remue, on s’aborde, on se réunit. On va les gens de bonne humeur, expansifs" (Costanza d’Azeglio).

Il governo tenta di contenere: decreti del 30 ottobre 1847. «Ma queste riforme apparvero del tutto insufficienti ai liberali, mentre suscitavano il più vivo malcontento a corte, dove, a detta di un ultramoderato come Petitti, si invocavano "piombo e capestri... per contenere quegli insolenti avvocati, mercanti e popolani che si credono divenuti qualche cosa"» (92).

Divisioni tra i liberali (Valerio mette Cavour tra gli assolutisti) in 92.

7 gennaio 1848. Riunione all’albergo Europa in 93.

Consiglio di conferenza del 3 febbraio. Borelli propone la costituzione da dare «avec le plus dignité possible pour la Couronne [...] il faut la donner, non pas se la laisser imposer» (93)

Consiglio di conferenza del 7 febbraio, la costituzione viene concessa. Carlo Alberto s’era fatto dispensare dal giuramento del 1823 dal vescovo d’Angennes. «Il giorno dopo, con l’annuncio dello Statuto, ebbe termine la vecchia monarchia piemontese» (94).