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 2010  giugno 01 Martedì calendario

BOURGEOIS, IL VIAGGIO DELLA DONNA RAGNO

La ricordo bene l’allegra perentorietà capricciosa, ma anche coerente, con cui mi rispose, di là d’Atlantico: «No, grazie, in una mostra di sole donne io non ci voglio proprio stare!». Fu duro, alla nostra adorazione sconfinata, ricacciare indietro il totem di marmo già pronto, che pareva chiudere così bene la mostra delle Donne Artiste a Palazzo Reale di Milano, e prenderci pure le reprimende delle mastrine della recensione, come se l’avessimo potuta dimenticare, l’Unica. Ma onore alla sua caparbia convinzione di voler combattere in extremis gli uggiosi lai del più trito femminismo, i sociologismi marci del politicamente corretto, come se una donna, con gli attributi, non potesse farcela comunque! Chi altri, come nel celebre scatto di Mapplethorpe, sarebbe uscita decisa e disinibita dal suo studio, con quella sua scultura-fallo di cartapesta, imbracciata con disinvoltura, quasi fosse l’inseparabile borsetta della Regina Elisabetta? E pareva ancora ammiccare, burbera, di là dell’oceanico filo assassino: «Guai a questi ghetti!».
E dire che Louise Bourgeois, che è morta ieri a New York a pochi mesi dai cent’anni, certo per fare un ultimo simpatico dispetto, da Miss Marple, a tutte le attese, le cerimonie, le feste ufficiale, ha fatto moltissimo per la liberazione dell’immaginario femminile e il nome imbattibile delle donne-artiste. Avendo delle rivali non da poco, come Louise Nevelson, Meret Oppenheim, Delaunay & Arp, Arbus e Modotti, e molte ne stiamo dimenticando, ma certo non Carol Rama, che le avevamo affiancato in una mostra torinese, e lei s’era detta, quella volta, d’accordo. Donne di paure e di fantasmi infrangibili, possenti, incantatori.
Lei aveva presto «incominciato a dare fastidio», lo ammetteva, sin dai primi decisi vagiti, nascendo il 25 dicembre 1911. Così che il medico di famiglia non aveva avuto remore nel sibilare alla madre vittoriana, già tanto dispiaciuta di disturbare: «Ma Madame, lei mi sta proprio rovinando la festa!». Ecco, un capricorno predestinato: che ha continuato tutta la vita, in fondo, a guastare le uova nel paniere del perbenismo artistico (anche quello delle avanguardie, che esiste, esiste), magari facendo rotolare nelle sale dei musei quei suoi meteoriti di pietra michelangiolesca (li andava a scegliere lei, i massi, in Versilia, ed ebbe questa espressione autoironica, magnifica: «la pietra is io») o animando quelle sue forme brancusiane ma imbarazzanti, piene d’occhi, di braccia, di appendici sconvenienti e paradossali, tanto quelle del rumeno erano glabre e liscie.
Ma lei non pensava davvero alle forme del Museo, quanto a come sfuggire al triste Affare di Famiglia, in cui era immersa, come in un bagno caustico. Il padre burbero e libertino, che la chiamava «una bocca in più da sfamare», e che, con la scusa di trovarle un’insegnante di lingue (era nata a Parigi, ma i Bourgeois si sentivano profondamente americani) si portò in casa la giovane amante Sadie e la impose pure alla silente moglie, che abbozzò.
La madre, che Louise tradurrà creativamente in quella gran legione vibrante di ragni giganteschi e aggressivi, di cui disseminerà il mondo, per condividere perfidamente le inquietudini di casa, che sono poi quelle di tutti: «femmes-maisons» con gli occhi cavi delle finestre sventrate e i braccini focomelici che non fanno ornamento. Bamboline vodoo trafitte di giochi, ma in rosa confetto o dentiera o accappatoio. Strani congiungimenti, che evocano un sesso poco celibe e molto perverso. Sotto lo sguardo poliziesco di mille ragni-madre, protettivi come igloo di Merz, ma insieme invasivi, impellenti, pelosi, come effetti speciali da film di serie B. Perché questa, un po’ King Kong, un po’ Gabinetto delle cere espressioniste, era pure la koiné camp, che più le piaceva mettere in gioco e veicolare. In fondo, possiamo dire, era la sua stessa idea di arte, bassa e totemica, mai conciliata, sempre in agguato, spiritosa e spiritica. Come una feroce battuta scultorea, di soddifatto humour nero.
In mezzo a tutti quegli scheletri denudati di poltroncine Versailles, che il padre impiccava in alto, quasi fossero salami, per continuare a comandare le sue truppe, la piccola Louise cerca di rendersi utile, e restaura vecchi Gobelins anche lei, come la madre, quando non c’è l’esperto in disegno, Monsieur Gounoud (tutto un programma!): ma siccome è ancora bambina, non le è riservata che la parte bassa, quella più rovinata: piedi distrutti, zoccoli inesistenti, scarpe quasi ortopediche. E lì nasce l’imprinting della sua scultura (il suo vero maestro fu dunque l’uomo delle favole d’arazzo, quel La Fontaine, «che ha rappresentato la mia scuola di vita»). Più che non quella del pittore Léger, «che dovevo seguire da uno studio all’altro, perché non pagava mai l’affitto». «Ogni giorno devi disfarti del tuo passato, oppure accettarlo e se non riesci diventi scultore».