Wolfgang Münchau, Il Sole-24 Ore 1/6/2010;, 1 giugno 2010
EURO DEBOLE NON FA TOCCASANA
Volete sentire le argomentazioni addotte dagli ottimisti sul futuro della zona euro? I programmi di austerità abbinati a un euro debole potrebbero salvarla. La tesi su cui si basano è che se la crisi è stata provocata dall’indisciplina fiscale, allora l’austerità vi porrà rimedio. Un euro debole e una ripresa globale ammortizzeranno l’impatto delle misure di austerity. Oltretutto le garanzie finanziarie e i divieti di vendere a breve termine terranno alla larga gli speculatori. Amen, fine della crisi.
Gli ottimisti finora non hanno avuto una buona crisi. E le cose non cambieranno. Ecco per quale motivo.
Prima di tutto, i programmi di aggiustamento fiscale in definitiva saranno sì necessari, ma i governi europei stanno ripetendo al momento i loro errori dei bei tempi, consistenti nel tagliare la spesa e alzare le tasse ben prima che l’economia si sia ripresa. Negli Stati Uniti è in corso un dibattito su un altro pacchetto di stimoli all’economia, per garantirsi che la ripresa non resti prematuramente a corto di slancio. Gli europei stanno soffocando la ripresa prima ancora che questa abbia avuto inizio. I prematuri programmi di austerità in ultima istanza intralceranno la riduzione del debito, in quanto la crescita nominale resta molto fiacca.
Oltretutto, Italia e Spagna necessitano entrambe di abbinare agli aggiustamenti fiscali le riforme strutturali. In Italia di queste riforme non c’è traccia alcuna all’orizzonte. La Spagna, invece, è prossima a decidere un pacchetto di riforme del lavoro. In ogni caso, ciò quasi certamente non sarà sufficiente a risolvere il problema fondamentale di un mercato del lavoro diviso ed estremamente poco flessibile. Perfino in Germania, dove la spesa pubblica resta anemica, la coalizione di governo sta trattando un aumento delle imposte.
In secondo luogo, il tasso di cambio dell’euro è sceso molto, e potrebbe continuare a scendere. Però non al punto da poter risolvere i problemi di competitività dell’Europa meridionale, molto probabilmente. In Grecia, per esempio, il settore delle esportazioni che tira di più è il turismo. Un calo dell’euro nei confronti del dollaro non riuscirà a cambiare granché la posizione di relativa competitività nei confronti delle altre nazioni della zona euro che si affacciano sul Mediterraneo. Potrebbe migliorare la sua competitività nei confronti di Turchia e Croazia, per esempio, ma soltanto nella misura in cui la lira turca e la kuna croata si rivalutino anch’esse. Perché il tasso di cambio dell’euro possa da solo risollevare e dare una mano nel ripristinare la competitività dell’Europa meridionale, servirebbe un ulteriore deprezzamento sostanziale, fino ad arrivare a 60-80 centesimi di dollaro.
Ipotizziamo che ciò accada, e prendiamo in considerazione le conseguenze in generale.
L’Ocse, la settimana scorsa, ha calcolato che l’attuale eccedenza delle partite correnti in Germania - sono scese al 5% del Pil del 2009 - nel 2011 risalirà al 7,2 per cento. Questa previsione si basa sui tassi di cambio attuali.
Un’ulteriore caduta del cambio dell’euro avrebbe pertanto due conseguenze: aumenterebbe ancor più l’eccedenza della Germania portandola verosimilmente a oltre il 10% del suo Pil e di conseguenza aumenterebbe gli squilibri interni alla zona euro.
Oltretutto contribuirebbe ad accentuare gli squilibri globali, in quanto la zona euro nel suo complesso trasformerebbe un piccolo deficit delle partite correnti in una grande eccedenza. Fare affidamento sul tasso di cambio, insomma, sarebbe l’estremo caso di politica "beggar-thy-neighbour" .
Terzo, sussistono i dubbi sul pacchetto di aiuti finanziari per 750 miliardi di euro deciso per soccorrere i paesi più deboli della zona euro: la Corte costituzionale tedesca deve ancora prendere una decisione ufficiale in merito e se è difficile predire l’esito delle sue consultazioni, significa che sussistono legittimi motivi di preoccupazione.
Non sono sicuro che la corte accetterà la tesi della "forza maggiore" invocata dal Consiglio europeo per decidere in merito all’autorizzazione del pacchetto di aiuti in extremis. Il Consiglio nello specifico si è appellato all’articolo 122 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, in base al quale si consente un aiuto finanziario «quando uno stato membro di trova in difficoltà o è gravemente esposto a difficoltà a causa di disastri naturali o di circostanze eccezionali che esulano dal suo controllo», ma credo che vi siano legittimi dubbi sul fatto che molteplici errori politici, che hanno portato alla crisi, possano essere definiti un evento che esula dal controllo di qualcuno. Temo anche che i giudici tedeschi esprimeranno cattivi presentimenti circa la decisione di questo mese della Bce di comperare obbligazioni.
Quarto, la supposizione che la crisi sia stata provocata o innescata dalla speculazione non è soltanto dubbia a livello legale. Può anche sviare dalla necessità di primaria importanza di riformare la compagine della governance della zona euro. Se si accusano gli speculatori, l’ovvia reazione politica potrebbe essere quella di proibire le vendite a breve termine e di penalizzare gli hedge fund, invece di riformare l’intera compagine.
Pertanto mi aspetto poche riforme sostanziali. Al massimo si raggiungerà un gonfiato patto di stabilità, di cui sarà data notizia con gran pompa in un’altra conferenza stampa al prossimo summit europeo di giugno. I governi stanno già adoperandosi per attenuare le sensibili, per quanto non molto ambiziose, proposte della Commissione europea. Ciò significa che i governi europei molto verosimilmente perderanno l’occasione per risolvere i problemi sul lungo periodo.
Ciò di cui la zona euro necessita davvero è una strategia di consolidamento che si basi sulla crescita e su un credibile piano di aggiustamento fiscale. Le serve nello specifico d’incoraggiare la domanda interna nell’Europa settentrionale per facilitare l’aggiustamento in quella meridionale. E infine le occorre un nuovo ed efficace sistema di governance economica. Al contrario, i governi hanno scelto di dar la caccia agli speculatori e di far colpo l’uno sull’altro varando misure di austerità. Stanno dunque contribuendo ancor più alla sempre più probabile, benché ancora lontana, disintegrazione della zona euro.