Francesca Paci, La Stampa, 1/6/2010, 1 giugno 2010
HAIFA, PAURA DELLA TERZA INTIFADA
Nonostante l’attentato israeliano alla pace lo sceicco è vivo, insciallah» dice Assad Khalalk, imam della moschea Istiklal, marciando insieme a 300 persone lungo Shabtail Levi street, nel sobborgo arabo Hagefen. Lo sceicco, al secolo Raed Sallah, è il leader del Movimento islamico israeliano, un gruppo massimalista vicino ad Hamas, a bordo della Marmara al momento del blitz e inizialmente dato per agonizzante. Per ore, temendolo moribondo, i simpatizzanti si sono scontrati con gli agenti a Um el-Fahem, sua città d’origine a 60 chilometri da Tel Aviv. Sapere che Sallah è vivo placa le fiamme ma non spegne l’incendio. Se tra i minareti di Haifa pacifisti e comunisti israeliani sfilano dietro chierici intonanti «Allah uakbar», Allah è grande, davanti all’ospedale Rambam, dove sono ricoverati i militari israeliani feriti nell’attacco, Avital, sandali e fazzoletto caratteristico dei coloni, brandisce il cartello «Uccidete tutti gli arabi».
Quando nel 1961 lasciò la Birmania per trasferirsi a Tel Aviv, il professor Hubert Loyon non immaginava di ritrovarsi un giorno in una piazza di Haifa a sventolare la bandiera palestinese «in memoria delle vittime dell’assalto israeliano alla nave dei militanti internazionali». Per lui, non ebreo, la terra promessa era quella del socialismo dal volto umano. Ora, capelli bianchi arruffati, scandisce slogan in arabo a pochi passi dall’ateneo dove fino a ieri ha insegnato urbanistica, indifferente all’afa che gl’incolla addosso la maglietta di Gush Shalom, il movimento pacifista fondato da Uri Avnery: «Capii presto che la realtà era diversa, ma le cose sono peggiorate negli anni. Man mano che Israele, sempre più forte, rinunciava a negoziare, lo Stato nato come un’utopia antinazista diventava totalitario». Il blitz sulla Marmara, urla, mentre il megafono ripete il mantra «Gaza libera», è la prova: «Il ritorno di Netanyahu dall’America dimostra che per la prima volta il governo israeliano sa di aver messo il suo popolo contro il mondo: non potrà continuare a lungo».
Se mai è veramente esistito, l’armistizio tra il governo di Gerusalemme e il milione e trecentomila arabi-israeliani che rapresentano il 20% della popolazione sembra avere i minuti contati. Mentre da Nazareth al Negev riecheggia il tam tam dello sciopero generale indetto per oggi, Haifa, la capitale della minoranza più riottosa d’Israele, tira fuori la rabbia sepolta sotto il quotidiano esercizio della convivenza. «Basta vedere come erano armati i sedicenti pacifisti per capire che si tratta d’una provocazione araba» borbotta Lihi, titolare del cafè Mary, piccola friggitoria sotto l’insegna con le falafel e la stella di David, vicino al porto. Dall’altro lato della strada Mahmoud ripone in negozio i boxer da mare a 20 shekel e rimugina una teoria analoga e simmetrica «E’ una provocazione israeliana, vogliono portarci alla terza intifada per colpirci a morte come fecero dopo la seconda». Davanti a lui, alla fermata del 331, dove ogni indicazione è ripetuta in due lingue, mamma Fatima, velata, tiene per mano il piccolo Tawfik con la t-shirt di Arafat, morto a novembre del 2004, un mese prima che lui nascesse.
«E’ presto per capire ma i presupposti sono preoccupanti perché i giovani arabi-israeliani sono più radicali dei genitori» osserva Gabriel Ben-Dor, direttore del National Security Studies Center dell’università di Haifa. Secondo il sociologo Sami Smooha il 70% degli eredi dei palestinesi finiti al di qua della partizione del ”48 accetta l’identità ebraica d’Israele ma ne rifiuta quella sionista definendola «razzista». Gli israeliani, d’altro canto, li considerano la terza colonna del terrorismo, almeno demografico: cellule dormienti in attesa del giorno del giudizio.
«Abbiamo il passaporto ma siamo cittadini di serie B, mentre tutti i palazzi di Haifa abitati da ebrei hanno i rifugi antiaerei nei quartieri arabi c’è n’è a malapena uno nelle scuole principali» accusa il ventiduenne Omar Somri, studente di legge e membro di Hadash, il partito comunista israeliano. I viali del campus ingombri di bottiglie testimoniano la guerriglia contro la polizia. Con i compagni dalle maglie piene di citazioni, da Mandela al Che, distribuisce volantini sullo sciopero di oggi: «Il raid può essere l’ultimo atto della guerra civile in corso dentro Israele dal ”48». Basta contare i blindati per le strade per capire il livello d’allerta esploso dopo mesi di tensione per la proposta del governo d’un giuramento di lealtà allo Stato ebraico. Dieci anni fa la «passeggiata» del premier Sharon sulla Spianata delle Moschee accese la sanguinosa seconda intifada.
«Chi vuole la convivenza avrà ragione della follia del mio governo, ebrei e arabi-israeliani raziocinanti condividono troppo per abbandonarsi alla rabbia» confida Dudu Amitai, portavoce di Givat Haviva, l’associazione israeliana che si occupa della minoranza araba. Sarhan Mahmed, il Patch Adams arabo che si veste da clown per far ridere i piccoli malati degli ospedali israeliani, gira il Paese fotografando quelli che manifestano mano nella mano per la rivista bilingue al Sennara. Meglio insieme per la pace che divisi sulla guerra. Peccato che le due narrative non siano mai state tanto distanti come oggi.
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