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 2010  giugno 01 Martedì calendario

VARI PEZZI DEL CORRIERE SULL’ATTACCO ISRAELIANO DEL 31/5


AMOS OZ: «GRAVE ERRORE DI STUPIDITA’, ORA IL GOVERNO TOLGA L’ASSEDIO A GAZA» di Francesco Battistini -
Stupidità. In questa storia d’orrore e di tenebra, Amos Oz non vede molto di più della stupidità del male. «Sono abbastanza abituato a queste esplosioni d’insensatezza...». Qualcuna è riuscito a spiegarsela, qualcuna l’ha pure capita. Ma stavolta... davanti alla tv, il computer acceso lì vicino: «Non ci sono molte idee, dietro cose come queste. Il governo israeliano ha commesso un errore d’una stupidità enorme’ dice ”. Si sono messi in testa di bloccare quelle navi, di cui probabilmente non si sarebbe accorto nessuno. Hanno creato un clima d’attesa. Per giorni, in Israele non si parlava d’altro. Questa è stupidità: avrebbero dovuto lasciarli passare, ci avrebbero guadagnato tutti».

La comunità internazionale, i palestinesi parlano d’un crimine di guerra...
«Io non sono sicuro che si possa parlare d’un crimine di guerra...».

Sparare sui civili, nelle acque internazionali...
«Un crimine di guerra presuppone che ci siano dei militari che aprono il fuoco, deliberatamente e senza preavviso, su persone inermi che subiscono solamente. Qui, non sono sicuro che le cose siano andate così. C’è stato uno scambio di violenze, anche se ovviamente di proporzioni diverse».

Ma quelli erano, comunque, pacifisti. Armati di biglie e di bastoni...
«Io non li conosco, questi pacifisti. Molti di loro non si possono definire così. Sono islamici militanti, simpatizzanti di Hamas, hanno legami con organizzazioni terroristiche. Credo che cercassero la provocazione. Questo è un fatto. In mezzo, certo, hanno dei pacifisti in buona fede. E poi, comunque la pensino, fermarli e ucciderli è un errore. In un confronto armato fra militari e civili, il militare appare sempre dalla parte sbagliata».

I soldati forse sono andati ben oltre il mandato.
«I soldati fanno quel che i loro politici comandano. Il governo deve assumersi le responsabilità di questi errori. E se necessario, dimettersi. Perché qui torna la colpa per stupidità. Nel passato, di questi episodi ne abbiamo visti molti. Un paio di settimane fa, il governo ha bloccato Noam Chomsky che entrava dalla Giordania. L’hanno interrogato per ore, in modo umiliante, e l’hanno rispedito indietro. Io lo conosco bene, il professor Chomsky, e posso rassicurare il governo israeliano: non attenta alla nostra sicurezza. Quando dominano gli estremismi, purtroppo, c’è un tipo di stupidità che non puoi controllare. Penso anche all’umiliazione che il nostro viceministro degli Esteri ha inflitto mesi fa all’ambasciatore turco: l’ha fatto sedere su una poltrona più bassa della sua, ha tolto le bandiere, gli ha fatto una pubblica reprimenda...».

Una volta era un Paese amico d’Israele, la Turchia.
«La Turchia è un pezzo fondamentale della nostra storia. Le relazioni sono quelle d’un rapporto secolare. Ci sono migliaia d’ebrei turchi, qui, e migliaia d’israeliani che lavorano in Turchia. il più grande Paese musulmano del Medio Oriente: conservarne l’amicizia significa tenere una porta aperta su un mondo ostile. Ma in questo deterioramento, anche la classe politica turca ha fatto di tutto perché i rapporti si guastassero. Erdogan ha usato spesso toni d’una durezza inaudita. E i suoi nuovi legami con Iran e Siria non possono certo tranquillizzarci».

Siamo a un punto di svolta, per Gaza?
« troppo presto, per dirlo. Sicuramente, siamo arrivati al momento in cui Hamas deve rilasciare Shalit e il governo israeliano deve togliere l’assedio a Gaza. Non so se avremo un accordo, sul blocco. Questo governo Netanyahu ormai fa un errore di stupidità ogni mese. L’annuncio della costruzione di case a Gerusalemme Est durante la visita del vicepresidente americano, fu un capolavoro. Speri sempre che non ci caschino, e invece ci cascano sempre. In questa chiave, potrebbe essere molto importante l’incontro fissato per domani (oggi, ndr) a Washington fra Obama e Netanyahu...».

Guardi, arriva ora sul cellulare la notizia: Netanyahu ha deciso di cancellare l’appuntamento alla Casa Bianca e di tornare a casa.
«Ah sì? Io speravo ne uscisse una decisione, poteva essere il momento buono. Invece questa cancellazione conferma che è l’ennesimo errore. Anche di Obama. Un Altro stupido errore. Parlarsi è sempre meglio che non dirsi nulla».

Il governo israeliano può rimediare a questo disastro d’immagine?
«L’unico modo è togliere l’assedio a Gaza».

Ma crede che l’opinione pubblica stavolta appoggi compatta, come fu con la guerra d’un anno e mezzo fa?
«Creo che ora si riapra un grande dattito sulla sensatezza e sulla stupidità della nostra politica a Gaza. Anche se temo che, un’altra volta, a prealere siano gli estremisti».

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ORE 4, IL COLONNELLO Z VA ALL’ASSALTO di Francesco Battistini -
Ecco ora per ora, secondo le versioni di tutte le parti, la lunga notte della Free Gaza.
Ore 22 – L’operazione ha inizio. La forza speciale della Marina israeliana, Hsyetet 13, quattro commando radunati a Haifa, riceve le istruzioni dal colonnello Z, incaricato del blitz, che resta in contatto col capo di Stato maggiore, Gaby Ashkenazi. Raccontano due sergenti, sotto anonimato: «Ci hanno detto che dovevamo fronteggiare attivisti per i diritti umani. L’ufficiale ci ha spiegato che ci sarebbe stato un accordo: perquisire le navi, identificare i presenti. Nient’altro. Il nostro primo gruppo doveva salire sulle navi solo con materiale antisommossa, lacrimogeni, gas irritanti. Le armi erano da usare solo in caso d’emergenza».
Ore 23’ Alla flottiglia pacifista arriva l’intimazione via radio dal comando israeliano: «Chi siete? Dove andate?». «Siamo parte della flotta Free Gaza, andiamo a consegnare aiuti umanitari». Sul radar compaiono le sagome di tre lance da guerra. La flotta è in acque internazionali: 6 imbarcazioni, 10 mila tonnellate di aiuti umanitari e di cemento, quasi 700 pacifisti da circa 40 Paesi. La nave più grande, 581 a bordo, è la Mavi Marmara e batte bandiera turca. Le Challenger I e II, americane, sono rimaste nel porto cipriota di Larnaca: guasti meccanici. Un sabotaggio?
Ore 23.30’ A Free Gaza, la soffiata arriva da un contatto israeliano. In ebraico: «Vi attaccheranno stanotte. Sono quattro gruppi molto ben addestrati. Vi avvicineranno in silenzio per cogliervi di sorpresa. State all’erta».
Ore 1 – Le navi sono a 120 km dalle coste israeliane, davanti a Haifa. Tutti i cellulari vanno in tilt. Muti i collegamenti radio. Dalla Turchia, dalla Grecia, dalla Svezia, le sedi dei movimenti pacifisti perdono i contatti. Isolamento totale.
Ore 4’ Scatta il blitz. Questa la versione israeliana: «Cinque navi vengono perquisite senza problemi. La sesta, la Mavi Marmara, non collabora: il colonnello Z scopre che almeno venti pacifisti sono sul tetto della cabina di comando, proprio dove il primo gruppo dovrebbe calarsi da un elicottero per impossessarsi della nave. I venti hanno preso la corda dell’elicottero e l’hanno legata all’antenna. I soldati si calano, ma vengono assaltati con coltelli, spray al peperoncino, spranghe». Questa la versione dei pacifisti: «Da un elicottero si calano sulla nave e cominciano a sparare, appena mettono piede sul ponte. Fuoco sul gruppo di civili che li aspettano svegli. La prova è il collegamento dell’inviato di Al Jazeera, che prima d’essere oscurato riesce a collegarsi e a dare subito la notizia di due morti. Non sappiamo che succede sulle altre 5 navi».
Ore 4.15 – Versione israeliana: «Fallita l’operazione elicottero, ne viene mandato un altro. Il comandante Z ordina di lanciare gas. Un soldato, preso in ostaggio, è derubato dell’arma e lanciato sul ponte da un’altezza di 10 metri. Lo prendono a calci. Perde i sensi». Versione pacifista: «Dopo gli spari sui civili, la reazione di chi cerca di salvare la vita».
Ore 4.20 – Versione israeliana: «I soldati chiedono il permesso di usare le armi. Accordato. Alle 4.30 lo scontro è terminato. Alle 5, il comandante atterra in elicottero sulla nave e viene a sapere delle vittime». Versione pacifista: «La sparatoria dura pochi minuti. Alle 4.30, arriva ai movimenti la notizia dei morti. Parte un appello internazionale. L’attacco è avvenuto al di fuori delle acque territoriali, in violazione delle leggi internazionali». Un video mostra un manifestante armato d’un coltello ricurvo. In un altro video, un soldato che spara con l’arma impugnata a due mani.
The Day After. Escono solo le versioni dei soldati: «Non eravamo preparati a uno scontro simile. Ci siamo dovuti difendere, altrimenti ci ammazzavano». I pacifisti restano tutto il giorno isolati. Portati nelle tende allestite ad Ashdod o all’aeroporto Ben Gurion. Qualcuno, ferito, rifiuta il ricovero.

---L’ALLEANZA TRA I PACIFISTI E I VOLONTARI ISLAMICI di Lorenzo Cremonesi
TEL AVIV – C’è l’86enne Edith Epstein, orfana di genitori scomparsi nell’Olocausto che da un trentennio si batte per la difesa dei diritti umani nel mondo. E con lei scrittori più o meno noti, studenti fuori corso, sessantottini ormai attempati ma alla ricerca di nuove cause, oltre a intellettuali israeliani disillusi, medici che lavorano nelle organizzazioni umanitarie internazionali. Ma al loro fianco trovi anche il nome di Hilarion Capucci. Come minimo un personaggio discusso.
Ora che ha 88 anni, la lunga barba bianca e il volto segnato dal tempo, quasi è facile dimenticare che nel 1974, poco dopo essere stato nominato massimo vescovo della Chiesa melkita (legata al rito latino) a Gerusalemme, Capucci venne catturato dalle truppe israeliane sul ponte di Allenby mentre stava trasportando sulla sua Mercedes armi e bombe per gli attivisti dell’Olp. L’accusa era gravissima: da vescovo approfittava dell’immunità religioso-diplomatica per aiutare la lotta armata. Fu condannato a 12 anni di carcere. Tre anni dopo intervenne la Santa Sede che ne ottenne la liberazione e l’estradizione a Roma, ma con la promessa che non avrebbe mai più dovuto occuparsi di Medio Oriente e men che meno di questione palestinese. Parole al vento. Solo pochi mesi dopo Capucci tornava sulle barricate. «Questa è la mia missione», ha sempre ripetuto, spesso da Damasco. Così anche nel 2009, quando cercò di salire sulle navi del «Free Gaza Movement» per arrivare nella striscia della disperazione.
Sognatori e attivisti, pacifisti, assieme a militanti pronti, se è il caso, a usare anche le bombe. Scorri l’elenco dei nomi dei circa 700 passeggeri e leggi quello del giallista svedese Henning Mankell o del politologo israeliano Jeff Halper, già arrestato dal suo Paese per avere partecipato al viaggio del 2008. Quello della giornalista britannica Lauren Booth, cognata di Tony Blair. Oltre a quello prestigioso della nordirlandese laureata al Nobel per la pace nel 1976 Mairead Corrigan. Tra le organizzazioni trovi la Turkish Humanitarian Relief Foundation, attiva dal 1995, messa fuori legge in Israele con il sospetto di finanziare Hamas contro il governo palestinese in Cisgiordania di Abu Mazen e Salam Fayyad. Ma ieri l’attenzione maggiore era per Raed Salah. «Guai se dovesse morire. Ci sarebbe il rischio dello scoppio di gravi violenze tra gli arabi israeliani. Magari una terza intifada. Questa volta non tra i circa 3 milioni di palestinesi in Cisgiordania e Gaza, ma tra i cittadini arabi in Galilea e nel resto del Paese», notava il quotidiano Ha’aretz e con lui quasi tutti imedia locali. Il motivo è ovvio. Salah è considerato il massimo leader dei movimenti radicali diffusi tra i circa un milione e mezzo di arabi israeliani (più o meno il 20 per cento della popolazione). Una decina d’anni fa ha creato il «Movimento islamico», visto come una sorta di emanazione dei Fratelli musulmani. I suoi sermoni il venerdì dal pulpito della moschea di Al Aqsa a Gerusalemme lo hanno reso estremamente popolare. «Salah ha riportato gli arabi di Israele alle fonti della loro fede e soprattutto al cuore del nostro credo nella città santa», spiegano a Um El Fahem, la cittadina dove è nato nella Galilea meridionale. Sembra che il suo movimento raccolga circa il 30 per cento delle simpatie tra l’elettorato arabo. Lui non ha alcuna intenzione di entrare in politica, comunque non in quella israeliana. L’astensione al voto è parte del suo rifiuto dello Stato sionista. Nel 2003 fu arrestato con l’accusa di raccogliere finanziamenti per Hamas. Venne rimesso in libertà vigilata dopo pochi mesi. In mattinata imedia arabi hanno diffuso la voce che fosse ferito grave, o addirittura morto durante il blitz israeliano sulle navi.
Immediatamente la situazione si è fatta tesa. Tafferugli tra studenti arabi ed ebrei nell’università di Haifa. Tiri di pietre e copertoni in fiamme attorno a Um El Fahem e sulle strade verso Nazareth.
Nel pomeriggio però fonti della Difesa israeliana hanno ribadito che Salah sta bene. E l’allarme sembra rientrato. «Non credo che comunque gli arabi israeliani siano disposti a sollevarsi in massa come avvenne in Cisgiordania e a Gaza nel 1987 e nel Duemila. Tra loro la grande maggioranza crede ancora nell’integrazione, chiede l’eguaglianza con gli ebrei. Non la separazione», spiega Dani Rubinstein, noto commentatore israeliano che oggi insegna all’università di Beersheva. La tensione potrebbe però tornare nelle prossime ore, quando la nave con gli attivisti dovrebbe attraccare al porto di Ashdod, e Salah venire arrestato. «Il peggio deve ancora arrivare», sostengono a Um El Fahem. «La vicenda è tutt’altro che risolta».

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CHE COSA CAMBIATO di ANTONIO FERRARI
Per chi crede ancora possibile la pace tra israeliani e palestinesi e ama lo Stato ebraico, che è l’unica democrazia mediorientale, ieri è stata una giornata lacerante e triste. Molto triste. Perché nessun distinguo e nessuna provocazione può giustificare il massacro.
Niente può giustificare il massacro di civili della flottiglia pacifista che voleva raggiungere la striscia di Gaza, violandone il blocco, con un carico di 10.000 tonnellate di aiuti umanitari. Che poi, nascoste fra gli aiuti, alcuni fra i 700 partecipanti di 40 Paesi, aderenti a ong internazionali, avessero nascosto qualche arma – magari impropria – non si può escludere, anche se gli agenti di frontiera turchi (notoriamente piuttosto intransigenti) sostengono di aver controllato passeggeri e carico delle 6 imbarcazioni che componevano la flottiglia. Ma nulla può servire da alibi all’azione durissima dei commando israeliani che hanno compiuto una strage. L’attacco di ieri, uno dei colpi più gravi alla credibilità del governo e delle forze armate di Israele, avrà pesanti conseguenze: politiche, diplomatiche e strategiche. Perché ha spinto a dichiarazioni ancora più estreme il presidente-dittatore iraniano Ahmadinejad. E ha fatto inorgoglire il fior fiore dell’estremismo arabo. evidente che il governo di Netanyahu, dopo aver creato imbarazzi internazionali con le dichiarazioni del suo ministro degli esteri, l’estremista Avigdor Lieberman e dopo aver provocato quasi una crisi con il presidente americano Obama (l’incontro previsto per oggi è stato rinviato), non pare in grado di gestire gli equilibri del Paese e di coordinarsi con le forze armate e i servizi di sicurezza. Diciamo questo perché non è la prima volta che Israele si confronta con le iniziative dei pacifisti internazionali. Nel febbraio dell’88, all’inizio della prima intifada, fu organizzata una missione simile. Pacifisti, politici e intellettuali invitarono i giornalisti, compreso chi scrive, ad Atene per prepararsi al viaggio davanti alle coste di Gaza. Non partimmo perché gli agenti del Mossad fecero esplodere il traghetto – di nome «Al Awda» (il ritorno) ”, sul quale dovevamo imbarcarci nel porto di Limassol, a Cipro. Azione assai discutibile, ma almeno fu evitato quello che poteva essere il rischio di un attacco e di un massacro, come è accaduto l’altra notte. Che il mitico Mossad non sia più quello di una volta è un fatto. Il fiasco di Dubai, con l’eliminazione fisica di un esponente di Hamas, ripresa in diretta dalle telecamere di un albergo dell’Emirato, ne è spettacolare dimostrazione. Ma anche l’ultima guerra del Libano e la stessa operazione «piombo fuso» nella striscia di Gaza hanno rivelato carenze e lacune sorprendenti, soprattutto nell’accuratezza delle informazioni dell’intelligence. La credibilità di Israele si appanna su due piani: all’estero ma anche all’interno, con la reazione degli arabi che sono cittadini dello Stato ebraico, furibondi per il ferimento di uno dei loro leader, lo sceicco Raed Salah. E poi non occorre essere profeti per comprendere che il processo di pace, che Obama stava cercando di riavviare, è destinato ad arenarsi, per l’ennesima volta.

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DIETRO LA SVOLTA "OTTOMANA GLI ERRORI EUROPEI di SERGIO ROMANO
Per molti anni la Turchia ha avuto nella politica israeliana un ruolo comparabile a quello degli Stati Uniti. Non poteva garantire la sicurezza dello Stato ebraico e non sarebbe mai intervenuta al suo fianco nelle guerre contro i Paesi arabi da cui è circondato.
Ma il fatto che il maggiore Stato musulmano della regione gli fosse amico dimostrava che Israele non era isolato. Le forze armate dei due Paesi, i loro servizi di Intelligence e le loro economie hanno collaborato con vantaggi reciproci che a Gerusalemme erano particolarmente apprezzati.

Sapevamo da tempo che quella fase doveva considerarsi conclusa e che la Turchia, soprattutto dopo avere migliorato i propri rapporti con Damasco, sarebbe stata tutt’al più un utile intermediario per un accordo sulle alture del Golan, occupate da Israele nel 1967. Ma la guerra libanese del 2006 e soprattutto l’operazione militare contro Gaza, alla fine del 2008, hanno cambiato la scena politica medio-orientale. Il segnale più evidente fu il clamoroso bisticcio fra il premier turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente israeliano Shimon Peres al World Economic Forum di Davos nel gennaio del 2009. Il secondo segnale, non meno clamoroso, è la partecipazione di Erdogan all’incontro tripartito di Teheran, tre settimane fa, quando Turchia e Brasile hanno offerto all’Iran un accordo sull’arricchimento dell’uranio che ha permesso al regime degli ayatollah di sottrarsi alle pressioni degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali.
 probabile che la costituzione ad Ankara di un governo musulmano, dopo la vittoria elettorale del partito Ak, abbia favorito la svolta della politica estera turca. Ma esistono altre ragioni, più importanti. Vent’anni fa la Turchia era un Paese atlantico, fedele amico degli Stati Uniti, candidato all’Unione europea: un pezzo di Occidente fermamente incastonato in un’area politicamente e culturalmente diversa. La fine della guerra fredda e della minaccia sovietica non ha modificato le grandi linee della sua politica. Ma la disintegrazione dell’Urss ha aperto alla sua influenza una grande regione, dal Mar Nero all’Asia Centrale, che era stata sino ad allora ostile. Il Paese restava euro-atlantico, ma non era più la frontiera sud-orientale dell’Alleanza. Era altresì, ancora una volta, potenzialmente «ottomano» e disponeva di buone carte (la dimensione territoriale, la tradizione statale, le forze armate, l’economia) che avrebbe potuto, all’occorrenza, giocare con profitto. Gli Stati Uniti lo hanno capito e hanno fatto del loro meglio perché i legami della Turchia con l’Occidente venissero rafforzati dal suo ingresso nell’Unione europea. Ma alcuni Paesi – in particolare Francia e Germania – hanno lasciato chiaramente intendere che una tale prospettiva non era gradita. La Repubblica greca di Cipro ha rifiutato l’unificazione dell’isola, ma questo non le ha impedito di essere accolta da Bruxelles a braccia aperte. I negoziati fra la Turchia e la Commissione europea sono cominciati, ma con riserve, limitazioni e rinvii che hanno reso l’adesione incerta, se non addirittura improbabile.
 davvero sorprendente che la Turchia, in queste circostanze, abbia cominciato a giocare le sue carte mediorientali? Il Paese euro-atlantico di una volta non poteva permettersi di avere una politica israeliana completamente diversa da quella dei suoi alleati occidentali. Ma il Paese «ottomano» non godrebbe di alcuna credibilità nella regione se non tenesse conto dei sentimenti che la politica israeliana suscita nelle società arabo-musulmane. Peccato che i complicati intrecci della politica interna israeliana impediscano al governo di Gerusalemme di anticipare le conseguenze dei suoi atti.

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LA RABBIA DEI TURCHI CONTRO ISRAELE. ERDOGAN: « TERRORISMO DI STATO» di Davide Frattini
ISTANBUL – Il convoglio blindato ha scortato l’ambasciatore al palazzo del ministero. Quindici minuti di colloquio, questi senza protezione. Dalle accuse e dalle richieste dei turchi. Che esigono il rilascio dei feriti (da curare in patria), minacciano «conseguenze irreparabili nelle relazioni», sbianchettano dal calendario qualunque evento li associ a Israele: niente partita tra le due nazionali di calcio Under 18, cancellate tre esercitazioni militari congiunte, richiamato il rappresentante diplomatico da Tel Aviv.
Almeno non muovono la flotta nel Mediterraneo, come invocano le grida delle migliaia di persone sbarcate in strada per protestare contro il massacro in mare. «La guerra deve essere la nostra risposta – proclama Hamza, studente di 19 anni, all’agenzia Reuters ”. Inviamo le truppe a Gaza». Ad Ankara, la polizia ha respinto con gli idranti i dimostranti che provavano ad assaltare la residenza di Gaby Levy, l’ambasciatore dello Stato ebraico. A Istanbul, in quasi diecimila hanno marciato verso piazza Taksim, sventolando le bandiere palestinesi e bruciando quelle israeliane.
Tre navi nella Flotta della libertà battevano bandiera turca, turchi sono 400 dei 581 passeggeri sulla Mavi Marmara, l’ammiraglia della spedizione. «Israele, ancora una volta, ha dimostrato di disprezzare la vita umana e le iniziative pacifiche. Hanno colpito civili innocenti», scrivono in un comunicato dal ministero degli Esteri. Ankara vuole sfruttare la posizione nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (vi siede come membro a rotazione) e il ministro Ahmet Davutoglu è volato a New York dopo aver interrotto il viaggio in Sudamerica. Da dove rientra di corsa anche il premier Recep Tayyip Erdogan. « terrorismo di Stato. Inumano», dice dal Cile.
Nella capitale, parla il suo vice, Bulent Arinc: «Un atto di pirateria in acque internazionali». «Questo attacco non resterà senza risposta». «Il governo non era coinvolto nell’organizzazione della missione». «Israele deve provare a difendersi, a dare delle spiegazioni, anche se non è possibile giustificare in alcun modo quest’azione». «Noi sappiano che le navi erano disarmate e che avevano solo obiettivi umanitari». «Il raid resterà come una macchia nera nella storia dell’umanità».
Da Gerusalemme, l’intelligence invita gli israeliani a non andare in Turchia (una delle mete preferite per le vacanze, l’unica abbastanza sicura in un Paese islamico) e chi è già qua a non uscire di casa o dall’albergo. Le relazioni diplomatiche (e con loro i 3miliardi di dollari in scambi commerciali e militari) stanno marcendo dal gennaio 2009 e dai 22 giorni di offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza. Per ora, la Turchia non ha espulso l’ambasciatore Levy e resiste qualche forma di contatto: ci sono state telefonate tra Davutoglu ed Ehud Barak, ministro della Difesa. Anche i due capi di Stato maggiore si sarebbero parlati. Ma l’intesa (interessata) tra lo Stato ebraico e Ankara affonda con l’arrembaggio degli uomini rana della Shayetet 13.

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TZIPNI LIVNI: «DANNO POLITICO, MA SI SCELTO IL MALE MINORE» di Maurizio Caprara
Il primo ministro Benjamin Netanyahu sostiene che i soldati «dovevano difendersi». Quale idea si è fatta dell’incursione sulla nave? Lo pensa anche lei?
«Certo, appoggio l’azione che le forze israeliane hanno compiuto per difendersi», rispondeva ieri per telefono al Corriere Tzipi Livni, capo dell’opposizione israeliana e del suo principale partito – il Kadima, che raccoglie adesioni di destra e di sinistra – ed ex ministro degli Esteri.

Secondo la versione israeliana, i contestatori avrebbero usato armi da fuoco leggere, coltelli e bastoni. Hanno subito alcuni morti. Le pare una reazione proporzionata?
«Oh sì, a raccontare il caso sono le immagini. Non è questione di versione israeliana, è questione di verità, di realtà. Il primo soldato entrato nella nave è stato picchiato da un sacco di gente. Nel modo più violento. All’inizio, i soldati non hanno reagito. Fino a quando la brutalità è stata tale che l’unico modo per salvare le proprie vite era reagire».

Dice che le vite dei soldati erano in pericolo?
«Chiaro. Quel militare era picchiato con pezzi di ferro. Un linciaggio. La sola cosa da fare era contrattaccare. Per salvargli la vita e fermare la nave, che era la missione».

E le è parsa una scelta saggia un’incursione in acque internazionali?
«Il posto, secondo consiglieri giuridici, era legale. E prima dell’azione militare Israele aveva offerto di consegnare la merce a Gaza tramite noi o l’Egitto» .

Oltre a morti e feriti, c’è un danno politico: non ritiene che l’azione decisa dal governo peggiori ancora di più i rapporti con la Turchia, il primo Paese islamico che riconobbe Israele?
«Di sicuro c’è un danno politico, ma in Medio Oriente la scelta è tra opzioni cattive. L’altra era dimostrare di condividere che Gaza sia controllata da Hamas e di non essere capaci di fermare la nave».

Non crede che da anni la politica di Israele su Gaza sia un fallimento? Dopo il vostro ritiro non negoziato con i palestinesi, Hamas ha vinto le elezioni, un governo del quale lei faceva parte ha combattuto una guerra che ha lasciato oltre mille morti palestinesi per terra e oggi Hamas avrà nel mondo più sostenitori di prima.
«Quando Hamas diventa forte non è soltanto contro Israele. Rappresenta un’agenda dell’odio che non si batte per uno Stato palestinese. del tutto contro l’esistenza di Israele, e questo è inaccettabile. E quando Hamas si rafforza non è soltanto un problema israeliano, ma palestinese. Perché il governo palestinese legittimo, quello di Salam Fayyad, e Abu Mazen, diventano più deboli».