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 2010  giugno 01 Martedì calendario

ESTRATTO DA VITA DI CAVOUR DI GIORGIO DELL’ARTI. MONDADORI, MILANO 1983

DA PAGINA 238 A PAGINA 254

58. Bandiera
La questione italiana era tornata di moda con Puscita di due libri e con
la ripresa delle rivolte. I moti erano ricominciati ai tempi del colera: il male serpeggiando al sud, anche di questo veniva incolpato il governo. Tra il 1837 e il 1841 vi furono ribellioni a: Siracusa, Catania, Messina, paesotti vari di quelle zone, Cosenza, Penne, Salerno, Avelline, Napoli, L’Aquila. I rivoltosi venivano catturati e Ferdinando II li faceva fucilare.
Mazzini da Londra s’immaginava che, avviata l’insurrezione,
sarebbe cominciata la guerra per bande. Aveva ricostituito con gli
esuli sparsi nel mondo la Giovine Italia. Aveva pure cominciato un
lavoro tra gli operai italiani di Londra. C’era tratta delle braccia fra
Italia e Inghilterra, venivano a caricare ragazzini da mandare in giro
per le strade a chiedere la carità. Mazzini aprì una scuola serale,
predicava. ;
Arrivò da Malta una proposta di federazione. Un altro italiano,
Nicola Fabrizi, aveva fondato una società segreta. Non si misero
d’accordo, ognuno continuò a cospirare per conto suo. Fabrizi organizzò un comitato a Bologna, pareva che nello stesso momento sarebbero insorti Napoli e gli Stati pontifici. Si aspettava, si aspettava e la
rivoluzione non arrivava mai. Tentai ono a Imola e furono tutti presi.
Centosedici arresti, venti condanne a morte, sette giustiziati (di questi
sette, cinque si chiamavano Giuseppe).
Fece scandalo il tradimento dei fratelli Bandiera. Erano figli di un
ammiraglio della marina austriaca, che nel 1831 aveva dato con successo la caccia ai rivoluzionari in fuga da Ancona. L’ammiraglio aveva
voluto che i due ragazzi entrassero in marina. Ma. divenuti ufficiali e
girato il mondo, quelli si fecero patrioti. Disertarono, si rifugiarono a
Corfù, cominciarono a preparare la solita rivoluzione. Mazzini li sconsigliava. Arrivò la madre, Anna Marsich, a supplicarli. Il governo
austriaco, spaventato dallo scandalo che avrebbe prodotto la notizia
del tradimento, Paveva convinta a far quel viaggio straziante. Ma
niente. Il 12 giugno del 1844 sbarcarono vicino a Crotone. Erano in
tutto ventuno e uno di questi, il Boccheciampe, appena.sceso a terra, li
salutò e andò a dire ai gendarmi che erano arrivati. Li catturarono a
San Giovanni in Fiore e un mese dopo ne fucilarono nove nel vallone
di Rovito (i due Bandiera, Domenico Moro, Nicola Ricciotti, Anacardi Nardi, Francesco Berti, Giacomo Rocca, Giovanni Venerucci,
Domenico Lupatelli).
Bisognava rivedere dall’inizio tutta la questione italiana. La tragedia
dei Bandiera fu imputata a Mazzini e Mazzini ne aveva colpa nel senso
che teorizzava da anni l’insurrezione e non è facile capire bene la
differenza tra insurrezione, rivolta, rivoluzione. Avevano tutti una tal
voglia di far qualcosa!
Quel sistema pareva anche stupido. Poiché vuoi tutto, nessuno è
disposto ad ascoltarti. Chiedi addirittura la Repubblica! E se pretendessi pochissimo e grazie a quel pochissimo aggregassi più gente? Se
facessi politica? Astuzie, che ripugnavano alPApostolo. Quando usci il
Primato di Gioberti, egli scrisse: «Lo leggeranno pochissimi, per la
veste filosofica di chi lo ha ravvolto».
Il Primato morale e civile degli italiani ebbe invece un successo
enorme. Gioberti l’aveva scritto proprio perché fosse letto dal maggior
numero possibile di persone. Adulava i rè per non incorrere nelle
censure; certi punti, troppo pericolosi, li lasciava nel vago. Sosteneva
che per due volte nella storia gli italiani avevano avuto il primato e che
entrambe le volte esso aveva coinciso con la missione di Roma. La
decadenza attuale dell’Italia è dovuta al prevalere delle idee alee, al
dominio della Francia. Il Risorgimento non può cominciare che da
Roma, con la restituzione al papa del suo ruolo. Le quattro corone
d’Italia (Piemonte, Toscana, Roma, Napoli) si uniscano in una confederazione presieduta dal pontefice.
Questo non significava rinvigorire il potere temporale dei papi?
Come mai si dovrebbe puntare tutto sullo stato peggio governato
d’Italia? Già mentre scriveva il libro aveva affrontato discussioni,
Mamiani gli aveva detto chiaro che «per noi italiani il dominio temporale dei papi è stato poco meno che la somma cagione di tutte le
nostre sventure, la pietra ficcatasi tra i labbri delle nostre ferite a
impedire che mai potessero rimarginare».
«Io godo di potermi accordare perfettamente con voi - aveva risposto Gioberti - intorno ai vizi del governo temporale del papa, ai danni
che derivano per la stessa disciplina ecclesiastica e gl’interessi della
religione. Credo ch’è impossibile il riformarlo, finché il suo maneggio è
alle mani dei preti; ma quando questi tornassero al tempio e per legge
rigorosa lor si vietasse di uscirne, quando uno statuto civile chiamasse
a partecipare nelle faccende pubbliche il fiore della nazione, non si
potrebbe star bene, ancorché il potere stesse nelle mani del papa, come
principe elettivo, secondo ebbe luogo più volte nel Medioevo?»
E siccome l’altro insisteva sbottò:
«A che hanno giovalo le invettive di tanti scrittori da due secoli in
qua? A niente salvoché a frodare la società di quel bene, che governandosi con più prudenza avrebbero potuto fare. Credete voi, esimio
Mamiani, che qualche volta le mani non mi pizzichino, e non sia
tentato d’impugnar la penna contro una turba di ipocriti o di ignoranti,
uno solo de’ quali fa più danni alla religione di cinquanta increduli? Ma
noi fo, perché non sarei più letto dalla maggior parte del giovane clero
della mia nazione che è la sola classe nella quale io possa confidarmi
ragionevolmente di ottenere qualche frutto».
Erano le cose che aveva detto anche quel pomeriggio a Bruxelles,
mentre, preparando il caffè, inveiva contro gli italogalli. Le scriveva a
Santa Rosa e Santa Rosa le ridiceva in giro alla sua maniera semplice.
Ma era difficile far passare l’idea del papa in certi ambienti di Torino. I
gesuiti erano già adesso cosi potenti! Carlo Alberto aveva messo nelle
loro mani l’istruzione, essi gli avevano costruito attorno una camarilla
senza fine, che faceva e disfaceva i ministri, che teneva le chiavi del suo
cuore. Lo terrorizzavano, lo condizionavano, profittavano del fatto
che era nato con un grande spavento di chissà che e che in definitiva
non aveva un grande cervello. Il governo era diviso in due, metà amici
dei gesuiti, metà avversar!. Il sovrano cedeva ora a questi ora a quelli.
Nel ”40 lo pressarono finché non si convinse a cacciare Pralormo,
ministro dell’Inierno liberale. Ma poi al suo posto chiamò Gallina,
altro liberale. S’era entusiasmato per il libro di Petitti sulle strade
ferrate, però l’aveva costretto a stamparlo a Capolago, fuori dal Piemonte. 4
La risposta a Gioberti fu Le speranze d’Italia di Cesare Balbo. Nelle ”
Speranze si sosteneva che c’era innanzi tutto la questione austriaca,
cioè se gli austriaci non sgombrano il Lombardo-Veneto è assurdo
parlare di confederazione. L’unico modo realistico per allontanarli è
una congiuntura favorevole a livello intemazionale e al momento non /
si vede probabile che una nuova cnsi orientale. Smembrato l’impero
turco, l’Austria si compenserebbe nei Balcani e lascerebbe il Lombar- ,
do-Veneto al Piemonte. Non c’è da soffrir troppo per gli altri movi- I
menti di liberazione, le uniche nazioni che meritino l’indipendenza
essendo l’Italia e la Polonia. L’Austria, invece, formerebbe una barriera cattolica contro la barbara Russia. Bisogna che al momento ”
opportuno i principi italiani si facciano promotori di questa soluzione.
E che nel frattempo si rafforzino e si tengano in contatto. .Si costruiscano ferrovie, si giunga a una lega doganale unica, si attuino caute
riforme... .
Cavour si riconosceva in questa posizione. Nell’articolo sulle strade
ferrate aveva fatto più di una volta riferimento a Balbo. «Siamo sicuri
che l’appello eloquente che Balbo ha rivolto a tutti gli italiani avrà fatto
vibrare più di un petto ricoperto delle insegne delle prime dignità dello
Stato, e avrà risvegliato più di un’eco tra quelli che, fedeli alle tradizioni degli antenati, fanno del principio della legittimità la base del loro
credo politico».
Era persino possibile checon quel programma fosse d’accordo il
Solaro della Margarita, il terribile ministro degli Esteri di Carlo Alberto, l’amico principale delFAustria in Italia.
59. Valerio
Più tardi gli uomini dei vari partiti vennero indicati con le parole
«reazionan», «conservatori», «moderati», «democratici», ma negli
anni ”40 queste distinzioni sarebbero ancora troppo nette. Usando i
due termini «conservatori» e «liberali» bisogna intendersi. A corte i
«liberali» erano quelli che avversavano i gesuiti. Ma questi stessi
«liberali», trasferiti ad esempio nel FAssociazione agraria, potevano
benissimo diventar «conservatori». A Genova c’erano ancora repubblicani di destra e il primo a suggerire a Carlo Alberto l’adozionedi una
carta costituzionale fu il La Tour, formidabile reazionario. A un certo
punto gli stessi protagonisti di quegli anni. non trovando un modo più
efficace per riassumere le contrapposizioni, presero a dire «aristocratici» e «borghesi», altri termini che non davano garanzie sulle reali
posizioni di ciascuno, ma erano efficaci propagandisticamente.
I gesuiti costituivano una discriminante minima, sarebbe stato
impensabile trovare un loro estimatore anche tra il più moderato dei
«liberali». La forza principale della Compagnia risiedeva nelle scuole,
completamente sotto il suo controllo. Il minimo tentativo di penetrare
in questo loro regno provocava reazioni sconvolgenti: il padre Sagrini
accusò di irreligiosità l’Istituto di Rosmini perché Rosmini non s’era
opposto alle ispezioni pubbliche («II nostro Istituto di carità si compiace di ispezioni e vigilanza...»).
Nel ”45 la nomina di Cesare Alfieri, che aveva fama di «liberale», a
Magistrato della Riforma (ministro dell’Istruzione), provocò irritazioni, furie.
D’altra parte era impossibile non tentare qualche incursione in quel
loro regno; l’opinione dei padri come educatori era riassunta in una
celebre pastorale del ”41 : «Ah! che l’odierno impegno di volere in tutti
eccitare la smania di leggere, lungi dal riuscire profittevole per la parte
della religione, diviene spesso agli individui delle classi inferiori gravemente dannoso anche per riguardo all’opinione pubblica». Nel
1844, quando Ferrante Aperti venne a tenere lezioni di pedagogia a
Torino, l’arcivescovo Fransoni proibì ai preti la frequenza ai corsi, poi
ordinò ai censori di impedire che sulla stampa comparisse una sola
parola di quel seminario. Questa era l’altra forza dei gesuiti, il fatto che
avessero in mano la censura e potessero controllare e proibire la circolazione di qualunque scritto. A corte costituivano un partito potente, fatto di funzionari piazzati nei posti giusti, figure invisibili e
influenti. Il loro rappresentante più autorevole era il conte Solaro della
Margarita, ministrodcgli Esteri. Una volta Carlo Alberto gli disse enei
padri erano talmente odiati che non sarebbe più stato possibile nominare un ministro della loro parte. E Solaro replicò: «Ma dell’opinione
pubblica. Maestà, non si deve tener alcun conto, Popinione pubblica è
stata la rovina della Monarchia».
Così, prendendo come punto di riferimento l’ideologia dei gesuiti, si
potrebbe cominciare a delineare qualche tratto dell’ideologia liberale. I ,
gesuiti non volevano che lo Stato istruisse i poveri e neanche che si )
occupasse della beneficenza. Come pensavano che la miseria fosse
stata creata per mettere alla prova il nostro buon cuore, così erano certi
che l’ignoranza fosse l’unica sede possibile del candore. Allora i «liberali» erano quelli che si dichiaravano favorevoli alla beneficenza
pubblica e all’istruzione generalizzata, quelli che mostravano una certa ^
sensibilità al cosiddetto «problema sociale»: ai poveri, agli operai. Il ,
consesso più illustre di questi «liberali» era l’Associazione agraria, in
via dei Conciatori. chiaro che poi questi «liberali» si dividevano a
loro volta in «moderati» e «democratici» sulle questioni proprie
dell’agraria, la prima delle quali era che scopo dovesse avere l’associazione stessa e come dovesse essere interpretato lo sforzo comune di
far migliorare l’agricoltura (cioè: può l’agricoltura veramente migliorare se nello stesso tempo le forme politiche...?).
L’Associazione era stata formata da quello stesso Cesare Alfieri che,
due anni dopo, mandò cosi in bestia i gesuiti. Si proponeva di organizzare esposizioni e di distribuire premi, ricompense, libri. Carlo
Alberto la incoraggiò perché gli piaceva Fidea di far qualcosa per la
borghesia. Ma c’era un giornale e nelle sedute si discuteva, cosa di cui
molti si spaventarono. Allora il rè prese a mandare un commissario
che seguisse i dibattiti e gli riferisse su eventuali intemperanze.
Certe volte l’Agraria pareva davvero un Parlamento. Nelle discussioni si formavano maggioranze e opposizioni, i regolamenti si votavano articolo per articolo, come le leggi negli Stati costituzionali. Fecero una discussione sui furti nelle campagne, presero a dire con
una tale foga che era colpa delle condizioni in cui erano costretti avivere i contadini che Giovanetti dovette alzarsi e invitarli alla calma. Tutto questo non dava scandalo, sembravano problemi tecnici.
Soprattutto qui si usò «aristocratici» contrapposto a «borghesi», per
dire «conservatori» contro «democratici». I due partiti tuttavia non
vennero alla luce fino al ”45, nei primi anni i vari gruppi si mescolarono
senza paura. Cavour si iscrisse fin dall’inizio, ma cominciò a occuparsi
dell’Associazione dopo il viaggio con De La Rive in Francia e in
Inghilterra. Rivelò subito una curiosa tendenza a prendere posizioni
minoritarie e a tenerle senza paura. La polemica più grossa fu sui
poderi-modello. S’erano innamorati della pratica invalsa all’estero di
istituire fattorie-modello. Sostenevano che i poderi-modello avrebbero permesso di fare esperimenti e spingere l’agricoltura sulla via della
modernizzazione. Ma questo - pensò Cavour - significa ammettere
che il ciclo chiuso, in quanto sistema, va sostituito. Ora - spiegò nessuno conosce un sistema complessivo migliore di questo, mentre è
vero che sono possibili miglioramenti di dettaglio al suo interno. Tuttavia per questi non c’è affatto bisogno di un podere-modello, quanto,
piuttosto, di un giusto rapporto con i laboratori di chimica, con le
istituzioni scientifiche. Non vale sostenere che all’estero i poderimodello hanno funzionato, perché all’estero avevano un’agricoltura
arretrata di secoli e, dovendo persuadere i coltivatori con i fatti, i
poderi-modello furono un ottimo strumento di propaganda. Ma da noi
servirebbero solo a porre il problema angoscioso che, poiché esistono,
si deve sperimentare a tutti i costi qualcosa e io già mi immagino i
professoroni che si lambiccheranno il cervello per trovar questo qualcosa, per capire che cosa vai la pena inventare...
Gli arrivarono risposte sdegnate di Donnei, Duboin, Veggi. Non sa il
signor conte tutto quello che si può fare pel vino? Ignora che vi sono
zone arretrate persino in Padania?
Cavour ebbe la peggio e in seguito fecero alla Veneria una specie di
fattoria-modello. Ma l’aspetto notevole di questo scontro era che collocava Cavour a destra, tra i «conservatori». Essendo il poderemodello una novità, che per di più veniva dall’estero, era ovvio che chi
la sosteneva si considerasse «progressista».
Il capo dei progressisti, o democratici, era Lorenzo Valerio, uomo
corpacciuto, dal pizzetto nero. L’avevano cacciato da scuola a quindici
anni, s’era messo a fare l’operaio, poi a dirigere una seteria ad Agliè, nel
Canavese. Aveva un’oratoria travolgente, colorita. Al culmine dei
discorsi, con le braccia piegate verso il basso e i gomiti sollevati, rivoli
di sudore gli scendevano sulle guance.
Sapeva fare tutto quello che pretendeva dai suoi sottoposti, questi
non potevano sfuggirgli. Gli mise la paga di lunedì, giorno in cui più
volentieri si davan malati. Le assenze calarono di colpo. Apri un asilo
ad Agliè, ma soprattutto per tener buone le filatrici che avevano bambini. Fondato il giornale «Letture popolari», Balbo, uomo dalle mille
prudenze, accettò di collaborarvi.
Il capo dei moderati (o conservatori) diventò Cavour, ma solo nel
’45, quando Cesare Alfieri da presidente dell’Associazione venne
nominato Magistrato della Riforma (è la nomina che mandò in bestia i
gesuiti) e i gruppi si trovarono a un tratto di fronte al problema di
sostituirlo. La questione su cui fino a quel momento avevano sorvolato, e cioè «chi stesse con chi», diventò a un tratto attuale. Il primo
scontro avvenne sulla durata in carica del vicepresidente subentralo ad
Alfieri, il conte di Salmour. Quella volta Cavour si guadagnò i galloni
di capo. ma Valerio ebbe la meglio.
Un anno dopo, quando si trattò di nominare il nuovo presidente
effettivo, i due schieramenti si presentarono con un candidato ciascuno. Era l’atto di nascita dei due partiti. Valerio penava il marchese di
Sambuy, inventore di un celebre aratro, Cavour il conte di Salmour.
suo vecchissimo amico e vicepresidente uscente. Salmour uscì eletto al
secondo turno, per un solo voto e con una procedura assai dubbia,
perché vennero contati anche nella seconda votazione i voti per corrispondenza. Ma nelle votazioni successive il partito di Valerio sgominò gli avversar!, estromettendo il conte da tutte le cariche. Anche su
quest’altra fase della votazione si potrebbe discutere, perché i democratici vollero volare nonostante che il conte e un buon numero di suoi
seguaci si fossero allontanati dalla sala convinti che la seduta sarebbe
stata sospesa. Ma, già in quelle prime fasi, era una lotta senza esclusione di colpi. Cavour fece al padre, l’odiato capo della polizia, un
racconto dettagliato degli avvenimenti e lasciò poi che Michele andasse a denunciare i democratici a Carlo Alberto. Naturalmente, il marchese aveva messo da un pezzo delle spie nell’Associazione e potè
dimostrare che i democratici erano cospiratori, che mandavano in giro
giornaletti clandestini e preparavano sommosse. Così il rè sospese con
un atto di forza le riunioni e avocò a sé il diritto di nominare il
presidente. Poi, con le incertezze tipiche della sua natura, cominciò a
ricucire il rapporto con Valerio e gli altri, gli mandava lettere per
indurlo a conservare cariche, li riceveva di nascosto. Ma il conte di
Cavour, il delatore, era ormai additato al pubblico disprezzo dell’opinione di sinistra, un valico incolmabile s’era aperto tra questo lato e
quelPaltro del partito «liberale».

60. Pio IX
La situazione precipitò nel ”48, ma Fanno della svolta fu forse il ”46, in
cui i rapporti fra Vienna e Torino peggiorarono, fu eletto Pio IX e la
carestia raggiunse il suo culmine.
Nel maggio del ”46 gli austriaci raddoppiarono il dazio sui vini
piemontesi. Il governatore di Milano, convocato il console sardo, ebbe
il coraggio di dirgli che si trattava di una rappresaglia, decisa per punire
il Piemonte di un accordo fatto con i ticinesi in concorrenza con
Vienna. Vienna s’era fatta l’idea - sulla base delle decisioni prese in
materia ferroviaria e di altre questioni - che il gabinetto di Torino
stesse pian piano scivolando (senza accorgersene?) verso sponde «liberali» o almeno non più così filoaustriache come un tempo. Metternich aveva poi una diffidenza per Carlo Alberto fin dal’21. Eral’unico
rè del mondo capace, con la sua pochezza, di mandarlo in bestia.
I piemontesi non esportavano troppo vino, ma su 142.000 ettolitri,
100.000 andavano in Lombardia. Mettemich contava di mobilitare
viticoltori e proprietari contro il rè. Anche in Galizia, per fermare i
nazionalisti polacchi, tutti padroni di terra, aveva sobillato una rivolta
«comunista» di contadini ruteni.
In Piemonte vi fu una bella reazione, Carlo Alberto venne aiutato a
mantenere una posizione fiera. Sineo, un valeriane, scrisse sulla «Gazzetta»:
«L’Austria non vuole i nostri vini? Buon per noi. Li faremo conoscere al mondo intiero!».
Il guaio del vino piemontese era che, posto in viaggio, subito girava.
Ad Alessandria e Valenza [’Agraria indisse un concorso sul modo di
irrobustirlo affinchè resistesse nel tempo e sopportasse il trasporto.
Valerio lanciò una «sottoscrizione nazionale per lo smercio dei vini
piemontesi all’estero». L’idea era di arrivare alla costituzione di una
società anonima. Il rè incoraggiò. Quando l’ambasciatore di Mctternich venne a metterlo in tentazione, resistette.
Molti proprietari lombardi avevano terre nell’Oltrcpò pavese e in
Lomellina. Magari Carlo Alberto si fosse messo davvero a far l’antiaustriaco! Mentre si saldavano gli interessi dell’àlta classe lombarda
con quella piemontese, le moltitudini affamate potevano pur essere
spinte contro lo straniero.
A giugno fu eletto Pio IX e a luglio venne concessa l’amnistia. A
Roma, una folla enorme si radunò a Montecavallo. I manifesti erano
stati attaccati troppo in alto ed era buio. Allora si videro migliala di
cerini accesi tutt’a un tratto per far luce e arrivare a leggere, la gente in

punta di piedi, protesa. Il papa s’affacciò alla loggia atl’una di notte, poi
di nuovo alle tré del mattino. Piangeva. Sotto il balcone ci saran state
un trentamila persone.
Era impossibile ammettere che quella folla si sbagliasse e che il
pontefice non fosse davvero un liberale. L’amnistia rimise in circolazione un sacco di gente pericolosa, patrioti e altro, tutta la penisola ne
fu elettrizzata.
Gli effetti più evidenti nel Regno di Sardegna si videro a Mortara,
dove, durante il congresso dell’Associazione agraria, Valerio disse che
Carlo Alberto avrebbe liberato l’Italia dallo straniero (e non venne
arrestato) e a Genova, in occasione del congresso degli scienziati,
quell’anno vere assise del patriottismo di tuttTtalia. In Toscana fu
scoperta una società segreta con caratteristiche comuniste. A Milano,
ai funerali di Federico Gonfalonieri, la folla mantenne per tutto il
tempo un silenzio perfetto, per manifestare contro l’Austria e nello
stesso tempo non offrire il fianco ai repressori. L’anno si concluse con
una celebrazione dell’episodio di Ballila, avvenuto un secolo prima.
Furono accesi fuochi sulFAppennino, uno dietro l’altro, bastava uscire
dalle città per vederli, impossibile capire come tutti, improvvisamente, avessero imparato la storia.
Economicamente la fine del ”46 fu anche peggiore dell’inizio, il
maltempo investì tutta l’alta Italia, mandando a monte raccolti, allagando. Seguirono, nel ”47, fallimenti a catena di case bancarie e ditte
varie, soprattutto all’estero, con gravi ripercussioni nella penisola: la
casa Mercer di Londra, i Vertu e i Gobbi di Torino, i Bellone a Nizza, i
Castellain dì Liverpool. I prezzi precipitarono e non si trovava denaro.
Tutto aveva origine in Inghilterra, dove negli anni passati ferrovie e
industria pesante avevano attratto troppi capitali, che adesso non
potevano essere remunerati. In Italia questo diede origine a uno strano
miscuglio tra bisogni materiali, cacciata dello straniero, salari bassi,
letterature buone e cattive, fame. La questione del vino tra austriaci e
piemontesi non era stata risolta e Metternich decise un altro gesto
provocatorio, stavolta contro il papa: venne occupata Ferrara. Allora
partì la solita sequenza: crollo della Borsa, scomparsa dei capitali,
tensione sociale in aumento. La guerra veniva data per sicura.
La sera le strade di Torino si riempivano di gente. Facevano piccoli
gruppi, cantavano a bassa voce l’inno di Pio IX. La polizia non sapeva
che fare. La notte tra il 24 e il 25 di ottobre pattugliarono la città col
reggimento Novara. Standosene sotto le coperte si sentivano i cavalli
al galoppo, a ogni cantonata buttavano fiato.
La sera del 25 in piazza San Carlo si radunarono almeno 5.000
persone. Non riuscivano a stare in casa dopo che c’era Pio IX. S’ammassarono tutti da un lato, dall’altro stavano i soldati. Si guardavano e
non facevano niente.
A Genova, nella chiesa dell’Annunziata, ci fu un triduo per il papa.
Folla enorme. L’ultimo giorno passarono un biglietto al predicatore.
Questi lo lesse ad alta voce: «Si apra una sottoscrizione per comprar
armi al Pontefice!».
Subito le dame presero a girare e a raccattar denaro, si misero
insieme parecchie migliala di franchi. Certe signore, colte alla sprovvista, non avevano soldi. Allora lasciaron cadere nei sacchetti orecchini, anelli.
Tra il 22 e il 25 ottobre si tenne consiglio di conferenza. Il nuovo
ministro degli Esteri era Ermolao Asinari di San Marzano. Aveva
rappresentato il rè a Napoli, sapeva fin dove possono condurre certe
tensioni. «Io concederei qualcosa, Maestà» disse.
Subito Revei e Castagnette gli diedero ragione. Il rè vide che assentivano anche Des Ambrois e Avet.
L’editto delle riforme fu pubblicato il 30 ottobre. Prevedeva dei
cambiamenti nell’amministrazione, consigli comunali elettivi e consigli provinciali nominati dal governo sulla base di proposte fatte dai
comunali, l’istituzione di registri dello stato civile indipendenti da
quelli parrocchiali, nuove norme sulla censura, una Corte di cassazione. Il giorno dopo cominciarono le manifestazioni di giubilo, con
luminarie e grida. A novembre il rè andava sempre a Genova e anche
qui vi furono feste inaudite. «Carlo Alberto, Pio IX», i due nomi
venivano urlati sempre insieme. Quando ritornò a Torino alla fine del
mese, l’accoglienza fu ancora più imponente.
61. Cappai
Una delle lettere più tristi di Cavour risale a questo periodo, repoca
dell’isolamento da tutti mentre la tensione saliva. Al solito il conte non
la datò. ma dev’essere dell’autunno del 1846. diretta a Carlo Cappai,
vecchio compagno d’Accademia. Cavour si lamenta di aver abbandonato «la retta via della virtù», dichiara di volerci tornare per non
abbandonarla più. «Già sento che il tempo m’incalza, e che percorro la
parte discendente della curva della vita». E poi:
«Senza essere mai rimasto affatto ozioso, ho impiegato malamente
gran parte del mio tempo e delle mie facoltà. Un intrigo di bacchettone
mi costrinse a lasciare la dirczione degli asili. L’odio democratico di pretesi liberali mi fece abbandonare la Società agraria. Così sono
rimasto affatto estraneo alle istituzioni pubbliche del mio paese. Membro inutile della società, scrivo quando sono disposto al lavoro, e
studio e pratico l’agricoltura su d’una gran scala...».
Veramente all’Associazione agraria tornò, fu un’esperienza tremenda. Entrato in sala, chiese la parola. Allora tutti, come se si fossero
messi d’accordo in precedenza, uscirono e lo piantarono in asso, lì ritto
in piedi, col discorso strozzato in gola. Solo uno era rimasto, probabilmente perché ignaro del precedente, ma anche lui, colpito da quella
manifestazione, si stava avviando con grande imbarazzo verso la porta. Il conte gli gridò:
«Aspetti! Anche lei mi lascia?» e, spostando sedie, gli si fece vicino
con la mano protesa. «Come si chiama lei?»
«Castelli. Sono l’avvocato Michelangelo Castelli.»
«Resti, avvocato Castelli, resti. Io le proverò che non merito la
riputazione che mi hanno fatta.»
Castelli accettò di stringergli la mano.
Un altro colpo abbastanza feroce fu quando venne Cobden, il capo
dei libero-scambisti inglesi. Ci fu un banchetto, a cui andò anche
Cavour, poi il conte e l’inglese si misero a passeggiare e discutere
insieme. Allora coniarono la battuta, che si premurarono di andargli a
riferire: «Ecco il libero scambio a braccetto con il monopolio...», dove
il monopolio era Cavour. L’uomo era anche troppo ricco, ormai, per
suscitare simpatie.
Cosi il conte passò il ”47 a speculare, anche con successo. Vedendo
l’alluvione comprò a man bassa cereali con Emilio e il commerciante
Picchiura di Chivasso. A metà gennaio il grano stava già a 6,35 l’emina,
alla fine del mese a 6.40. Cavour cominciò a vendere cento sacchi al
prestinaio Regina. Regina avrebbe pagato anche 6,50, se gli si fosse
fatto un po’ di credito.
Gli inglesi facevano incetta di meliga. Il 16 gennaio il prezzo a
Genova arrivò a 5,50. Era chiaro che a quel modo in primavera non
se ne sarebbe trovato neanche un grammo. Tré giorni dopo, il
governo mise un dazio di 6 lire su ogni cento chili esportati e alla
fine del mese il governo proibì di mandare all’estero grano e mais e
caricò di quattro franchi il quintale il riso che passava il confine.
Soprattutto quest’ultimo provvedimento poteva colpire Cavour, il
conte aveva 2.000 sacchi da piazzare. Si salvò perché, calato il
numero delle spedizioni, diminuirono pure le spese di trasportoeil
margine non variò di molto.
Emilio aveva dubbi sul da farsi.
«Ma no. Il riso deve aumentar di prezzo a Lione e a Ginevra, non
riesco a immaginare altrimenti che cosa mangeranno. In Savoia lo
stesso. Il grano è arrivato a 9 franchi l’ettolitro. in ogni caso non se ne
trova più. In Piemonte il grano continuerà a salire, il riso non può
deprezzarsi troppo. Piuttosto, aumenteranno ancora i dazi, io metterei
qualche sacco al sicuro a Marsiglia...».
Spedirono a Marsiglia una nave intera, la affidarono alla ditta Warrain.
Il riso restava un problema. A Torino si vendeva meglio che a
Vercelli, ma la pioggia aveva ridotto le strade in un tale stato che il
trasporto si sarebbe dovuto fare con i buoi. Il conte decise di tentare
con i suoi migliori cavalli. Caricò 700 sacchi, e i cavalli, lottando con la
fanga, portarono i carri a destinazione. Emilio, che era padrone a metà
di quei 700 sacchi, non era troppo sicuro. Cavour tagliò corto versandogli 28.000 franchi e acquistando la sua parte.
Il grano riprese a salire con decisione a metà febbraio. In quell’epoca
a Montarucco, mercato meno caro di Torino, si dava via a 7,20. In
ventiquattr’ore montò a 7,25. Cominciò a salire pure il mais. Il 18 del
mese erano pronti a pagarlo 4 e 40. Picchiura, per conto di Emilio e di
Cavour, ne aveva comprate 7.300 emine a 3 lire e mezza. Il giorno 20
ne vendette 2.000 a 4 lire e 9 soldi con un guadagno netto del 25-30%.
D’accordo con Cavour, si sospesero le vendite. Era chiaro che il prezzo
sarebbe salito ancora quando si fosse fatta sentire la fame delle vallate,
quella dei paesi più lontani, più diffìcili da servire. Arrivò a 5 lire e
Cavour voleva vendere. Emilio disse di no, sosteneva che i rincari non
erano finiti.
«Siete veramente feroce!» commentò il conte.
I ribassi dell’estate lo fecero un po’ soffrire. Marsiglia, dove aveva
mandato quella nave di riso per cautelarsi dall’aumento dei dazi,
risultò una piazza ostica. Non rimise troppo sui fallimenti, ma era
drammatico veder saltare ditte che s’erano mosse con la massima
prudenza, prevedendo le difficoltà. I Gobbi lavoravano sulla setae non
avevano mandato neanche uno scampolo in Inghilterra, s’immaginavano benissimo il crack e non volevano essere travolti. Non bastò. Il
crack colpi Lione e i Paesi tedeschi, di qui rovinò gli affari pure alle
ditte di Torino.
Il fallimento di Castellain, che doveva fornire il materiale per la
Torino-Genova, fu una complicazione. Fatto raccordo col signor
Mare avevano partecipato sia all’asta del 14 novembre del ”46, sia a
quella del 14 gennaio successivo. Senza risultato, perché il materiale di
Castellain e delle altre ditte non corrispondeva alle richieste del governo. Alla nuova gara del 22 marzo la partita pareva chiusa per sempre:
l’asta per il primo tratto, Torino-Pessione, era stata vinta da Stoess, che
aveva offerto un prezzo più basso. Cavour stava per lavarsene le mani
quando s’era ripresentato il signor Mare. Voleva partecipare alla gara
per il secondo tronco, Pessione-Novi Ligure, e stavolta offriva, sempre
per conto dei Castellain, la controgaranzia dei banchieri Baudon di
Parigi e il nome di un fabbricante inglese di prim’ordine, Thompson &
Foreman. Cavour e De La Riie avevano deciso di ritentare. Lasciato
fuori dall’affare Dupré, s’erano associati con Eusebio Golzio. Mare
aveva vinto l’asta del 3 maggio e subito dopo s’era scoperto che Stoess
non era in grado di rispettare i tempi previsti dal contratto per il primo
tratto. Allora erano rientrati in gioco Cavour e i suoi anche per queste
forniture e il 5 agosto Golzio aveva fatto accettare al governo la vecchia
offerta Castellain aumentata del 3%. E venti giorni dopo la ditta era
fallita!
Tuttavia il fallimento Castellain risultò meno determinante del previsto, poiché rimase in piedi il costruttore, Thompson & Foreman. Il
banchiere Baudon, da Parigi, comprò il contratto e da quel lato i
problemi finirono. Andò in porto persino il vecchio progetto della
banca a Torino, Cavour passò ore e ore da Revei, il ministro delle
Finanze, per convincerlo, e alla fine Febbe vinta.
Poi ci fu Foccupazione austriaca di Ferrara, il crollo delle Borse,
insomma il precipitare della politica, fino alla concessione delle riforme del 30 ottobre ”47. Ma Cavour, che in definitiva non contava
niente, non poteva niente, passò buona parte di quel periodo rincantucciato a Leri e se i discorsi cadevano su quei fatti faceva mostra di
non sentire oppure cambiava al più presto argomento.
62. Cesare Balbo
^’editto delle riforme aveva un notevole contenuto antigesuitico. Era
un colpo alla Compagnia la creazione del ministero della Pubblica
Istruzione, carica più importante di un semplice Magistrato. Con la
trasformazione del Magistrato per la riforma in un ministro della
Pubblica Istruzione, l’autorità laica aumentava di peso in un campo
tipicamente ecclesiastico. Poi c’era l’istituzione dei registri di sialo
civile, che fino a quel giorno erano stati tenuti solo dalle parrocchie.
Infine Fabolizione della censura e la concessione di un minimo di
libertà di stampa. Alla stampa era stato concesso di trattare argomenti
di pubblica amministrazione, badando a non offendere la religione e i suoi ministri, la pubblica morale, il governo e i suoi magistrati, i
regnanti esteri, le loro famiglie e i loro rappresentanti, l’onore dei
privati cittadini. Rispetto al regime di prima era un passo avanti.
Il più esperto in questo campo era Lorenzo Valerio. Chiese il permesso di pubblicare un «giornale quotidiano politico e morale sotto il
titolo della Concordia». Aggiunse che al giornale era «assicurata Peperà di parecchi collaboratori». Infatti aveva messo insieme il meglio che
si potesse trovare a Torino: Balbo. Sineo, Lanza, Domenico Carutti,
Roberto d’Azeglio. Cera anche Elia Benza, l’ex mazziniano. Valerio
preannunziò che la «Concordia» sarebbe stato un giornale «politico,
economico, amministrativo e letterario» e che sarebbe stato «pubblicato quotidianamente in un solo foglio». Annunciò remissione di 120
azioni a 500 lire l’una, poi radunò i collaboratori.
Litigarono quasi subito. Era impossibile che uno come Balbo andasse d’accordo con Valerio, la moderazione insieme al fuoco. Stavolta
non si trattava delle «Letture popolari», ma di un giornale che avrebbe
fatto politica dalla prima all’ultima riga. E in un momento come
quello! Valerio aveva poi un modo imperioso di rivolgersi, non solo
aveva stabilito che sarebbe stato il direttore, era pure evidente che
avrebbe fatto il capo. Se ne andò anche il gruppo di Giovanni Lanza
(Lanza, Durando, Cornerò, Montezemolo, Pellati) che poco dopo fondò un suo giornale, intitolato «L’Opinione».
Balbo si rivolse a Cavour. Gli aveva recensito l’operina sui poveri,
quindici anni prima. Il conte era pure stato Punico, assieme a Costa de
Beauregard, a tener fede agli impegni, quella volta delle 100.000 prestate per la ferrovia in Savoia. Lo fece venire a casa sua.
«Allora. Che ne dice?»
«Ci sto. Ci sto subito. C’è un aspetto finanziario, ma sarà facile, non
sono imprese che si affrontino per guadagnare. Lei, intanto, prometta
un articolo al giorno»,
«Si capisce» rispose Balbo.
« una strada piena di scogli! A sinistra s’incontrano le tempeste
degli esagerati ed a destra le secche dei retrogradi...».
S’era completamente dimenticato che odiava la politica.
«Metteremo un capitale di 100.000 lire, cinquecento azioni da duecento lire l’una. Non ci vorrà niente a collocarle».
«Me l’immagino».
«No, basterà avere dei nomi di prestigio. Per esempio, se tra i fondatori ci fosse Giovanetti e noi fossimo autorizzati a dirlo, questo
sarebbe un passo avanti enorme. Basterebbe che prendesse un’azione,
una sola! Poi De La Rùe e i suoi amici banchieri. Non si tratta di guadagnare, è fin troppo evidente che come azienda saremo in perdita.
Ci basta un’autonomia di quattro anni...»
Sarebbe stato pazzesco immaginare di vendere più di 2.000 copie.
«Sa che le dico?» fece Balbo «Io ci vedrei dei preti».
«Guarda! Che idea! Franchi m’ha scritto lo stesso».
«Si, dei preti moderni. Questo ci aprirebbe un orizzonte...».
«Per la redazione, Franchi m’ha fatto dei nomi...»
Luigi Franchi di Pont era un altro che aveva partecipato all’avventura delle ferrovie in Savoia.
«Dice: Benolotti, Reta, Trucchi, Beiti...».
«I preti...».
«Sì, i preti. Pensi pure che i preti potrebbero crearci questioni col
vescovo. Comunque ammetto che è una buona idea. Voglio-Castelli».
«Chi?».
«Michelangelo Castelli. L’avvocato. Chieda a Franchi che lo conosce. A proposito: mi pare che parlando italiano ponessimo adoperare il
"voi". Che gliene pare?».
«Ma sì» fece Balbo scoppiando a ridere, -i s
Giovanetti prese due azioni, una per sé, l’altra per il genero. Altre’’
due ne prese Brielli, tré Castellengo, cinque Breme, una il marchese
Tonielli, un’altra il marchese padre, a Cono fu dato l’incarico di vendere azioni al caffè di Livorno, Emilio De La Riie dovette curare i
banchieri, ad Augusto De La Rive fu spiegato che si fondava il partito
liberale moderato. Mandò una lettera a Gaudenzio Gautieri, vecchio
compagno d’Accademia che stava a Novara e non vedeva da un secolo.
«Le azioni della Società sono di lire 200 pagabili in 4 rate; vedi tu.
che sei cotanto ricco, di sottoscriverne alcune e farne sottoscrivere ai
tuoi amici».
Entrarono subito in redazione: Sauli. Franchi. Galvagno, Ferraris,
Carenzi, Santa Rosa, Castelli. Il giorno 14 novembre si tenne una
riunione in casa Cavour.
«Il primo problema è: chi fa il direttore?».
Silen/io.
«La questione fondamentale è che quelli della "Concordia" vanno
dicendo che siamo amici dei gesuiti, dunque ci vuole un direttore che li
smentisca col suo solo nome».
S’era saputo che Balbo e Cavour stavano preparando un giornale, il
gruppo di Valerio era tanto più furibondo perché in un primo momen
to Balbo stava con loro. Valerio andava in giro dicendo: il partito
aristocratico si va riordinando. Persino Mazzini, a Londra, lo seppe.
«Mi spiace - disse - perché quei Signori sono addietro nel moto
attuale, e cacciano debilitanti dove abbisognano eccitanti». Il problema era tanto grave che Cavour aveva rifiutato un articolo di Salmour
che avrebbe potuto essere male interpretato.
«Io direi: l’uomo giusto è Massari. Facciamogli la proposta».
«Inutile! Inutile», gli rispose. Era il Carenzi. Cavour gli aveva parlato in anticipo della proposta e Carenzi aveva sondato il Massari.
Tutti si girarono dalla sua parte.
« troppo amico di Gioberti. Ci trova tiepidi».
«Ah» fece Cavour «allora non se ne parla, non se ne parla nemmeno...».
Franchi insisteva che ci sarebbero voluti cinque o sei redattori pagati
bene. Alla fine, tralasciando la questione del direttore, si divisero il
lavoro così: Cesare Balbo politica, Camillo Cavour esteri. Santa Rosa,
Galvagno, Cassinis, Bon Compagni questioni generali. Titolo del giornale: «II Risorgimento». Impossibile fissarne il prezzo finché non fosse
stato stabilito il bollo da pagare. Un problema era che si doveva far
presto, farlo uscire prima della «Concordia». Reta, che aveva lasciato
un altro gruppo in procinto di formare un giornale, fu mandato in giro a
vendere le azioni porta a porta. Era sottinteso che, finché non le avessero piazzate tutte e cinquecento, non sarebbero partiti.
Massari scrisse e chiese scusa. Sostenne che Carenzi aveva capito
male. Però ormai Valerio lo chiamava «l’infame Massari» e Massari
aveva deciso di stabilirsi a Firenze. Avrebbe gradito il signor conte
delle corrispondenze da quella città?
«Accettiamo l’offerta con riconoscenza. S’ella non rifugge dall’idea
di associare il suo nome a quelli che vengono chiamati aristocratici,
gesuiti e gamberi, saremo lieti di vederlo figurare nel nostro giornale».
Altri corrispondenti furono: Massimo d’Azeglio da Roma ed Emilio
De La Rue da Genova. Emilio ebbe l’incarico di passare anche le
notizie che gli arrivavano da Napoli. Cavour gli suggerì di dire in giro,
per raccogliere più abbonamenti, che «II Risorgimento» aveva il preciso scopo di combattere la «Concordia».
Finalmente si misero d’accordo che il conte avrebbe fatto il direttore
e il primo numero uscì il 15 dicembre. Era una specie di prova, la
cadenza quotidiana essendo prevista a partire dal 1° gennaio. L’articolo di Balbo diceva:
«E nei fatti dei prìncipi e nei fatti del popolo, il Risorgimento italiano è certo, è grande, è santo, è sancito ormai. - Dio io vuole: Dio ce
lo chiede, guai a chi lo tocchi.
«Dunque ancora: I: Indipendenza; II: Unione tra principi e popoli;
III: Progresso nella via delle riforme; IV: Lega dei principi italiani tra
sé; V. Forte ed ordinata moderazione...».
Cavour s’occupò del «risorgimento economico».
«Il giornale non dubiterà di dichiararsi apertamente per la libertà dei
cambi: ma cercherà di muovere prudente nella via di libertà; adoprandosi acciò la transizione si effettui gradatamente e senza gravi perturbazioni».
Poi: «L’aumento dei prodotti nazionali non sarà il solo scopo economico che il giornale prenderà di mira: esso metterà eguale o maggior
cura nella ricerca delle cause che influiscono sul benessere di quella
parte della società, che più direttamente contribuisce a creare la pubblica ricchezza: la classe operaia».
Ricordava che l’Inghilterra per molto tempo aveva trascurato le
classi inferiori e quando se n’era ricordata s’era accorta «con terrore,
che se in cima dell’edifizio sociale splendeva una classe illuminata,
energica, doviziosa, nelle basse regioni i più giacevano privi di lumi, di
cognizioni morali, orbi d’ogni sentimento religioso, ed alcuni in si
abbietto stato, da ignorare persino il nome di Dio, quello del divin
Redentore!».
E infine: «Facciamo sì che tutti i nostri concittadini, ricchi e poveri; i
poveri più dei ricchi, partecipino ai benefìci della progredita civiltà,
delle crescenti ricchezze, ed avremo risoluto pacificamente, cristianamente il gran problema sociale, ch’altri pretenderebbe sciogliere con
sovversioni tremende e rovine spaventose».
Il secondo numero uscì il 22 di dicembre. Conteneva una supplica al
rè di Napoli affinchè concedesse le riforme. Allora a Genova i radicali
bruciarono le copie sulla pubblica piazza. Cavour era al settimo cielo:
«Ma bene, ma bravi, ecco un buon modo per far conoscere il giornale...».
E, andando su e giù per la stanza, si dava la solita fregatina di
mani.