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 2010  giugno 01 Martedì calendario

ESTRATTO DA VITA DI CAVOUR DI GIORGIO DELL’ARTI. MONDADORI, MILANO 1983

DA PAGINA 225 A PAGINA 237

Enrichetta
I Cavour cominciarono a morire nel ”42, quando zia Enrichetta se ne
andò all’altro mondo in pochi giorni dopo essersi gonfiata e coperta
di brufoli. Due anni dopo Adele, la madre di Camillo e Gustavo,
ebbe un attacco di cuore. All’inizio del ”45 s’aggravò e il 23 di aprile,
un giovedì, chiuse gli occhi per sempre pure lei. Non ci furono altre
Smorti fino al ”48, ma quando si entrava da zia Vittoria la si trovava a
eletto, due cagnolini ai piedi, le carte da gioco sparpagliate sulle balze
delle coperte.
«Oh, Camillo, sonto tanto malata, tanto...»
Il cervello le stava evaporando. Chiamava di continuo i medici e quelli la salassavano. Si imbottiva di pillole. La generazione napoleonica stava sparendo e i tré figli di Gustavo erano ancora troppo piccoli. Gustavo era di una tristezza morbosa, bigotto e solitario. Ebbe uno scontro violento con Gioberti, oltrepassò ”ogni limite di decenza.
II marchese Michele restò capo della polizia per quasi tutto il decennio. Una testimonianza degli ultimi anni ce lo segnala come un vecchietto che girava in papalina, il naso adunco, gli occhi sfolgoranti. Dirigeva la polizia con un gusto feroce, diventò presto l’uomo più odiato di Torino. Perseguitava implacabilmente i liberali, ma una volta che scopri una casa di piacere zeppa di frati mise tutto a tacere. Altra cosa era se lo si osservava accanto al figlio più piccolo. Allora si rivelava la sua insospettata natura di padre, col quale il conte poteva parlare a mezzo labbro e piccoli cenni, sicuro d’esser capito.
Dopo la perdita in Borsa Cavour si trovò impegolato in un affare ferroviario che non aveva nessuna speranza. Ci rimise, in effetti, un altro mucchio di denaro. Si trattava di costruire un binario di otto chilometri che collegasse Chambéry al lago di Bourget. Sul lago di Bourget una compagnia di battelli avrebbe caricato i passeggeri o le merci e li avrebbe portati fino a Lione risalendo i canali e poi il Rodano. Cavour aveva visto le ferrovie in Inghilterra e non gli pareva vero di rifare l’esperimento.
Il marchese non ci credeva. «L’industria da noi non ha avvenire! C’è solo la terra!». Entrò nel Consiglio d’amministrazione, ben presto si occupò di tutto: finanziamenti, progetti, riunioni. Fallì per mancanza di capitali e perché per la costruzione dei battelli si mise nelle mani di un ingegnere giovane, che voleva ad ogni costo sperimentare un nuovo tipo di motore. Alla prova dei fatti il motore consumava il doppio e rendeva la metà. Quando andò tutto a monte, si trovò sulle spalle la gestione del fallimento, una folla di creditori, tra cui Cesare Balbo, che aveva prestato 100.000 lire.
Più tardi si disse che anche quella sconfitta era stata quanto mai utile, un’ottima lezione di gestione aziendale. Fu dura da sopportare, i documenti del ”42 segnalano nuovi scoramenti e ben giustificati. Fece un altro viaggio in Francia e in Inghilterra con Augusto De La Rive. Nonostante quello che era successo, la mania delle ferrovie non gli era passata. Presero il treno tra Londra e Southampton. Gli ritornò l’entusiasmo.
«Ma vi rendete conto, Augusto? Hanno annullato le distanze! Due
ore e tré quarti per fare 32 leghe, al prezzo di una sola ghinea!».
Le ferrovie attraversavano l’Inghilterra in tutte le direzioni, le conseguenze più curiose - notò - riguardavano la posta. Gli impiegati la lavoravano direttamente sui convogli; questo, unito alla velocità dei treni (30 miglia l’ora di media), aveva reso così rapido il servizio che la corrispondenza s’era enormemente moltiplicata. Un tempo bastava una vettura per portare le lettere da Londra a Birmingham, adesso ci volevano parecchi vagoni. A Londra, ormai, ritiravano la posta due volte al giorno.
« bello, ma costa troppo, capite? In Francia, se dovesse succedere
come qui, dovranno tassare fortemente la corrispondenza, altrimenti
tutti i guadagni delle ferrovie rischiano di scomparire in questa voragine. Oppure bollar le lettere come fanno loro, vediamo un po’, ci
vorrebbe una tassa uniforme, metterei la stessa tariffa tra Parigi,
Rouen e Orléans...».
«L’Irlanda è la peggiore atrocità d’Europa. No, in Europa non c’è un
caso come quello. Proprietari protestanti che sfruttano a più non posso, contadini cattolici di un’ignoranza abissale su tutto a cominciare
dall’agricoltura. E le leggi che favoriscono i proprietari. chiaro che i
contadini li odiano...».
«Attenzione, attenzione, state per dire che è giusta la rivoluzione;..».
Ci aveva pensato su.
«Se l’Irlanda diventasse indipendente ci rimetterebbe, no? E sarebbe
una perdita anche per l’Inghilterra. Parlo in termini di pura convenienza, di utilità. La soluzione è: istruzione popolare, tecniche agricole
e impedire ai proprietari di essere favoriti alle elezioni. Alla fine tutto
dipende da Londra. O’Connell è un bluff. Si, un bluff».
Quando poi tomo e si mise all’opera, si vide che era un magnifico
scrittore di cose politiche. L’articolo sull’Irlanda era anche migliore di
quello fatto da Senior per la «Revue d’Edimbourg». In quello sui
cereali sostenne con forza la sua vecchia idea del libero scambio e
dell’abolizione dei dazi. Arrivò a prevedere che in Inghilterra molto
presto si sarebbero messi su quella strada.

55. Corio
Quel viaggio durò un anno, fino alla metà del 1843. Rientrato a Torino
andò a Leri e fu preso dallo scoramento. Dopo otto anni di lavori e di
studi l’azienda rendeva ancora cosi poco!
Sulle prime aveva preso di petto il problema della campagna, voleva
che gli rendesse denaro. Non si farà nessuna operazione - diceva - che
non sia innanzi tutto redditizia. In quegli anni era affamato di soldi,
aveva fretta. Pensò di impiantare delle barbabietole, fece un esperimento a Grinzane, lo ripetè a Leri, andava bene. Dalle barbabietole si
sarebbe potuti passare a uno zuccherificio. Michele era contrarissimo.
Rinunciò di fronte a questa obiezione: che cosa farai se, impiantato
lo zuccherificio, qualcuno scoprirà un metodo di fabbricazione più
rapido e meno costoso? Aveva fiducia nell’industria, ma era forse vero
che per un’impresa di quelle proporzioni era presto.
Si sfogò con i concimi. A quel tempo si concimava con terra mista a
letame e orina, ossa triturate, cascami di cardatura, laniccio, farina di
sangue, cuoiattoli, carniccio, ritagli di unghia o di zoccolo o di corna. Si
sovesciavano fin le patate, si spargeva tartaro e feccia di vino. Il conte
sperimentava ogni combinazione, guai se un certo ordine non fosse
stato capito al volo. Soprattutto le ossa triturate erano efficaci.
Anche il lavoro della campagna obbedisce a un’ideologia e nel caso
di Cavour quest’ideologia consisteva nella «teoria del ciclo chiuso».
Vale a dire: io devo avere abbastanza prato per nutrir le bestie e
abbastanza bestie per ingrassare le terre. Se l’azienda si alimenta da sé,
il reddito è pulito e c’è una soddisfazione intellettuale, una specie di
gioia di aver fabbricato un mondo. Il mantenimento di questo equilibrio costringe a una quantità di trucchi. Per esempio, non si può
modificare un elemento senza rivedere tutti gli altri. Gli arativi vanno
preparati in epoche diverse dai prati e in ogni epoca si deve avere
abbastanza paglia e abbastanza letame e non dover comprare fuori. Per
la paglia bisogna studiare le rotazioni in modo che i cereali non siano
mai meno di tanto. Ugualmente i fieni devono essere giusti. Nessun
fieno è così caro come quello che si è costretti ad acquistare.
Ma il problema del fieno non era stato risolto, anzi la faccenda del
ciclo chiuso non s’era veramente mai verificata e ad ogni primavera
bisognava comprare biada fuori. I buoni raccolti erano pieni di mistero
come i cattivi. Qualche volta una concimazione scarsa dava frutti
enormi, altre volte niente sembrava capace di smuover la terra.
Cavour passava il giorno nei campi e la sera con i libri di Liebig.
Secondo Liebig la terra non può fare a meno di: carbonio, idrogeno,
ossigeno, azoto, fosforo, zolfo, calcio, potassio, magnesio, ferro. Ogni
pianta prende dal terreno quantità di questi elementi che tra loro
stanno sempre nella stessa proporzione, così la fertilità di un campo è
proporzionata all’elemento più raro. Qualche volta si mette molto
concime ed è inutile perché non si rafforza l’unico elemento di cui c’è
bisogno. Altre volte un certo concime rafforza proprio quell’elemento,
allora la pianta ne prende di più da tutti quanti. Anche sapendo che il
sistema è questo, quasi mai si riesce a capire veramente come stanno le
cose. A Santena il massimo raccolto di asparagi si ha al quarto anno di
semina. Dopo venti-venticinque anni non si raccoglie più niente,
bisogna cambiar coltura. Mettiamo che si tenga il terreno trenta o
quarant’anni a mais e che dopo si voglia ritornare all’asparago. Niente,
non c’è più niente da fare. evidente che all’inizio è stata sottratta
qualche sostanza fondamentale, che il mais non ha poi restituito. Solo
la scienza, sperimentando, potrebbe scoprirla.
Conti alla mano, risultò che l’azienda produceva un 50% in più
rispetto a vent’anni prima. Ma gli altri lì intorno avevano avuto lo
stesso incremento, dovuto soprattutto alla scomparsa del brusone.
Inoltre il ciclo chiuso restava una chimera. E il numero delle bestie, più o meno, era sempre quello: non c’era da inorgoglire, anche se Cavour
aveva continuato a rifornire il pascià di merinos e aveva incrociato
pecore a tutto spiano per ottenere una razza più facile da ingrassare e
con la lana sempre di prima qualità.
Fu allora che apparve Giacinto Corio, l’affittuario di Leri. Gli affittuari di solito erano una brutta categoria, prendevano in affitto enormi
proprietà e le subaffittavano a lotti più piccoli. Questa era stata la maledizione della terra piemontese. Ma Corio era di tutt’altra pasta e
stava sui campi dalla mattina alla sera. Alla meraviglia altrui rispondeva:
«E beh, io mi diverto più così che al caffè di Livorno...».
Voleva dire Livorno Vercellese, dove aveva un appezzamento. Un
altro stava a Casalborgone, un terzo a San Genuario, vicino a Crescentino. Lavorava, pian piano accumulava.
Cavour lo aveva conosciuto una volta che cercava un agente per
Montarucco e Corio gliel’aveva trovato. Nell’estate del 1843 tornò per
chiedere al conte di aiutarlo a pubblicare un articolo di risposta a
Epifanio Fagnani, che sulla «Gazzetta agraria» aveva esaltato la superiorità degli agronomi della Lomellina. Spiegandogli il suo punto di
vista, Corio tracciò le linee fondamentali della teoria del ciclo chiuso e
conquistò completamente il conte. Quando ebbe finito, Cavour lo
pregò di fare un giro per le sue terre. Al ritorno, Corio approvò tutto,
compresa la proporzione tra risaia, seminativo e prato. Tre quinti della
tenuta di Cavour erano coltivati a riso. Gli consigliò di provare la
qualità della Carolina e di lavorare a solchi il terreno della meliga, in
modo da favorire lo spurgo dell’acqua d’invemo. Chiese se avesse mai
provato l’aratro novarese. Promise di tornare e tornò, e Leri cominciò a
diventare l’azienda famosa che fu in seguito.
Poco dopo aver incontrato Corio, Cavour sentì parlare per la prima
volta del guano e ne fece venire una piccola quantità. I vicini ridevano.
Come mai per far fruttare i campi bisognerà ricorrere agli uccelli del
Sud-America? Poi, visti i risultati, smisero di ridere. Nel 1844 il conte ne
ordinò due tonnellate a 6.128 lire compreso il trasporto e ne rivendette
almeno un terzo. Nel 1845 ne prese 300 tonnellate e non bastava, ormai
lo chiedevano tutti. Voleva affittare una nave, mandarla a fare acquisti
direttamente in Perù e in Africa.
C’era una contraddizione tra Corio e il guano. Corio approvava
pienamente il sistema del ciclo chiuso e le rotazioni conseguenti (granturco per lavorar bene il terreno, poi grano e infine riso per tré anni).
Nel ciclo chiuso i miglioramenti non possono essere che graduali e
complessivi. Il ciclo chiuso è una specie di «giusto-mezzo» applicalo ai
campi. Avanti piano piano e tutti insieme e, soprattutto, senza alterare
gli equilibri. Invece il guano favorì raccolti enormi, assolutamente
sproporzionati. L’elemento decisivo per lo sviluppo dell’azienda non
veniva perciò prodotto all’interno del ciclo, andava comprato fuori.
Ma a quell’epoca era ancora tanto lo stupore per le qualità di quel
concime che nessuno si sofìermò sul suo contenuto rivoluzionario.

56. Emilio
Emilio De La Riie era il banchiere che Cavour aveva conosciuto a
Genova nel ”30 e che poi aveva assistito a tutta la storia con Nina,
quello che Nina cercava quando aveva voglia di parlare di Camillo.
Diventò socio del conte, pian piano fu trascinato in un turbine. Il
governo autorizzò l’apertura di una banca a Genova e Cavour,
insieme con Emilio, vi impegnò un po’ di capitale. Questa banca
scontava effetti, accettava depositi in conto corrente senza interesse
e concedeva anticipi se si lasciavano in pegno metallo prezioso o
cedole di Stato. Subito il conte volle far qualcosa di simile, insieme
con Emilio. Parlò con Barbaroux e Nigra, i due più grossi di Torino,
gli chiese se non avrebbero contribuito alla formazione del capitale
iniziale. Quelli lo mandarono a passeggiare. Allora fece il giro dei
piccoli capitalisti. Vicino, Casana, Defernex, Dupré. Questi avevano dei dubbi. Chiedevano: come mai Barbaroux e Nigra non vogliono? Cavour spiegava:
«Ma è chiaro! La Banca di Torino gli farebbe una concorrenza
spieiata. Quelli adesso prestano col 6, col 7, persino col 10% di
interesse perché caricano sui crediti commissioni di ogni genere,
diritti di immagazzinaggio. La Banca di Torino, invece, si accontenterebbe del 4».
Sostenne che all’epoca del raccolto dei bozzoli i filatori venivano in
città e, per comprare bozzoli, chiedevano denaro in prestito. Quando
poi era terminata la filatura, tornavano per vendere, ma chi comprava
pagava di rado in contanti, in genere chiedeva un paio di mesi di
tempo. Così era vero che c’erano almeno due momenti nel corso
dell’anno in cui si formava uno spazio per il credito. Aveva calcolato
che si trattava di un giro di un’ottantina di milioni almeno. Li convinse. E presto portò nell’affare anche Soldati e anche il barone
Duport, che entrava nel gruppo per conto di capitalisti lionesi. Allora
Nigra e gli altri si spaventarono: rischiavano di essere tagliati fuori!
Corsero a dirgli che avevano cambiato idea ed erano entusiasti
f dell’iniziativa. Il banchiere Vitta fu ridicolo, si presentò e cominciò a
;, dimostrare che una banca a Torino non aveva avvenire. Pure dichiarò
che, per aiutarli, sarebbe anche stato disposto a sottoscrivere un quarto
delle azioni e, se un quarto non era possibile, un quinto. Alla fine
diventarono troppi: Barbaroux, Nigra e gli altri s’accorsero che sarebbero stati messi in minoranza dai commercianti di seta. Chiesero di
ridurre i soci a dieci, ma non ci fu tempo di continuare, un improvviso
ribasso a Genova spaventò gli azionisti e il progetto tramontò.
Dopo di questo, Emilio dovette partecipare all’impresa del guano
(Cavour ne acquistava enormi quantitativi a metà con lui) e a quella
delle ferrovie. Il governo rese noto un progetto per unire con un binario
Genova, Alessandria e Torino. Da questa linea principale si sarebbero
poi staccati due tronchi, uno verso No vara, l’altro in dirczione della
Lombardia. Non era specificato se la costruzione sarebbe stata affidata
allo Stato o ai privati. Allora il conte si mise in movimento, era
impossibile fermarlo, aveva calcolato che investendo 27 milioni si
sarebbe ricavato un reddito di un milione e mezzo l’anno, pari al 5 e
mezzo per cento. Scrisse a Ginevra, scrisse a Parigi, mise insieme un
pool intemazionale di banchieri. A Genova c’era un’altra compagnia
che aveva o credeva di avere una specie di opzione sulla linea Genovaconfine lombardo. Poteva entrare in concorrenza, ma si spaventò per
la velocità a cui si muoveva Cavour. Gli spedirono una lettera per
farselo amico. «Bramosi quali siamo di non lasciarci sfuggire la propizia occasione onde assicurarci del prezioso acquisto di un Personaggio di tanto merito sotto d’ogni rapporto come sarebbe il degnissimo
Sig. Conte...». I versamenti non andavano fatti subito, così anche chi
non aveva capitali, come Cavour, poteva óon un po’ di coraggio
impegnarsi. Il conte prese questo milione e lo rivendette a Naville e alla
casa Lombard-Odier. A lui, in queste operazioni, restava in tasca la
provvigione.
Il governo decise poi di costruire a sue spese quelle tré linee, aveva
effettivamente in cassa un attivo di 70 milioni che non sapeva come
utilizzare. Ma ai privati vennero lasciati i tronchi secondari e Cavour
convinse Emilio a impegnarsi nella costruzione del tratto fra Torino e
Savigliano. Ricominciò a convincere i banchieri uno per uno e alla fine
formò una società con capitale di 7 milioni e mezzo, suddivisi in 25
azioni da 300.000 franchi ciascuna. All’inizio nessuno voleva partecipare, ma alla riunione conclusiva risultò che tutte le azioni erano state
; sottoscritte tranne una. Nigra allora propose di suddividere i 300.000
franchi mancanti fra tutti i soci, in questo modo la quota di ciascuno
sarebbe salita a 312.500. Ma Cavour s’alzò e disse che avrebbe lui, da
solo, sottoscritto tutto quanto. Suddivise poi quell’azione in piccole
quote e le rivendette. Intascava le commissioni e forse qualcosa di più
se nel frattempo si verificavano rialzi.
Per costruire la Torino-Genova il governo aveva bisogno di materiali, Emilio dovette seguire Cavour in nuove avventure. Venne a
Torino il signor Mare, a nome della ditta Castellain partecipava alle
aste per la fornitura di rotaie, cuscinetti, armature di ferro e altro
materiale che si produceva solo in Inghilterra. Per partecipare alle aste
bisognava versare una cauzione; Cavour, Emilio e il banchiere Dupré
si impegnarono ad anticiparla, a sorvegliare lo scarico del materiale a
Genova, a farsi carico della spedizione fra Torino e Asti, a sobbarcarsi
alle spese di collaudo. Poi: avrebbero anticipato le spese di nolo da
Liverpool a Genova e si sarebbero occupati di carico, spedizione,
incasso dei pagamenti, remissione in Inghilterra. In cambio avrebbero
incassato il 3% dell’intero affare.
Un altro conto fu quello delle traversine di legno. Per la TorinoGenova ce ne sarebbero volute 235.400. Si venne a sapere che 80.000
erano già state fornite dal conte Galateri a 8 franchi ciascuna. Si formò
una società composta da Cavour, Emilio, Eusebio Golzio e il conte
Rignon. Vennero acquistati i tagli della foresta della Perosa. Cavour e
Rignon quella volta fecero da banca, anticiparono i capitali al 4%. Gli
si diceva che era rischioso, che prima o poi si sarebbe rotto l’osso del
collo...
Ma quale rischio - rispose -. C’è uno da perdere e dieci da guadagnare, anche ammettendo che non costruiamo le traversine, il solo
fatto della ferrovia farà aumentare la domanda di legno.
Era qualcosa che andava al di là della sete di guadagno, che non
aveva quasi rapporto nemmeno con Pavidità che da giovane lo spingeva a giocare in Borsa, un desiderio di espandersi m tutte le direzioni
possibili, finché non gli avessero imposto dei limiti. Riempì Leri di
macchine, trebbiatoi, battipaglia. Tutti venivano a vedere. Era capace
di non riuscire ad addormentarsi tanto il pensiero di un meccanismo lo
afferrava. Si mise con i francesi Fourrat e Blondel per una Società dei
Mulini che brillasse il riso con una macchina di nuovo tipo. Gli raccontarono che in Inghilterra la chimica aveva fatto scoperte sensazionali, si diede una manata sulla fronte.
«Il guano in laboratorio!»
Non c’era la minima prova che fosse possibile, ma convinse Alessio
Rossi, che aveva una fabbrica di acido solforico, cloruro di calce e sali
di ammoniaca, e Domenico Schiapparelli, che produceva fosforo, a
oxettersi con lui per tentare la strada dei concimi artificiali.
Stavolta Emilio si mise le mani nei capelli.
«No Cavour. basta, Cavour ho perso il conto, io mi perdo nei
laboratori più ancora che nei boschi, d’accordo, d’accordo, le informazioni su Rossi e Schiapparelli sono ottime, ho chiesto anch’io a
Marsiglia, ma ditemi per Pamor di Dio che investimenti si devono
fare, che possibilità abbiamo di guadagnare in un affare come questo,
Cavour, io vi giuro, son pronto a venirvi dietro dappertutto, ma sento
che senza di voi non oserei sfiorar questa roba neanche con la punta di
un dito...»
Rossi mise 50.000, Schiaparelli idem, altre 50.000 furono fomite
dall’ennesima società formata da Cavour, De La Riie e, stavolta, Pietro
di Santa Rosa. Il conte si fregava le mani.
«Il giro d’affari sarà di 300.000 almeno. Combiniamo sangue, coma,
residui gassosi, magari feci... sì, si, ci manca dell’esperienza, questo è
vero...»
Faceva su e giù per la stanza, riflettendo ad alta voce.
«Per esempio, abbiamo a disposizione fosfati, alcali e sali ammoniacali. Il problema è: come vanno messi insieme?»
Il conte era adesso più rotondo, non veramente grasso, ma soffice.
S’era fatto crescere una barbetta intorno alla faccia, penava gli occhialetli ovali, aveva perso un po’ di capelli. Era ancora più roseo, per via
della campagna.
Non pensava a sposarsi e non aveva donne. Ogni tanto la Melania
Costa, la moglie del medico Gighetti. Ma senza amore, per sfogo. In
campagna, la domenica, era magari galante con le ragazze. Scherzava e
ne faceva ballare qualcuna.
Era un uomo solo, non badava neanche più troppo all’eleganza. La
campagna impone abitudini, abitua a certi odori. A Leri stava in una
casa da contadini; aSantena. che era piena di comodità e non puzza va.
non andava mai. La mattina sbalzava alle quattro e leggeva fino al
sorgere del sole. Ai primi raggi, eccolo nei campi. Correva col cappellone di paglia, il bastone, tutto frugando, tutto controllando. I contadini si svegliavano e lo trovavano già che li aspettava, c’era un muretto
da costruire o una cavalla da far sgravare. Guai se pigliava qualcuno
seduto. Interrogati quando non c’era, i contadini ammettevano.’ «Il
signor conte è un po’ cane».
Ma se qualcuno si ammalava, lo faceva curare e si inteneriva per i
ragazzini che avrebbero potuto essere suoi figli. In nessun caso gli
rebbe potuto accadere come al Carlo Magnaghi, il padrone di Castelmerlino, che i suoi un mattino l’avevano preso e stramazzato di botte,
in un modo tale che da Leri si sentiva tutto, i contadini avevano

smesso di lavorare e, come cani paralizzati da un odore meraviglioso,
stavano li, rapiti, a bearsi delle grida di quel padrone battuto, finalmente umiliato.
57. Waghorn
Le ferrovie avevano un risvolto politico enorme, perché tutte le merci
in un futuro prossimo avrebbero marciato su binan. le relazioni internazionali ne sarebbero state condizionate. Alla metà degli anni ”40 si
potevano individuare tré zone evidenti di conflittualità.
Le connessioni. Quando un Paese avesse costruito una linea ferroviaria, bisognava che poi l’altaccasse a una linea ferroviaria straniera
per non restar tagliato fuori dal resto del mondo. Questo poteva dar
luogo a ogni sorta di ricatti e di prepotenze da pane del Paese più
grande nei confronti di quello più piccolo. Un Paese vasto, come ad
esempio rAustria. poteva stravolgere la geografia collegando certe
città e non collegandone altre. I milanesi tentarono di costruire una
strada ferrata da Milano a Venezia (la Ferdinandea) e a Vienna glielo
impedirono in ogni modo. A un certo punto, poiché i capitalisti italiani
insistevano, quelli fecero aumentare di prezzo le azioni. Allora gli
italiani, ignari, vendettero, gli austriaci comprarono e il progetto sfumò. Mettemich non voleva potenziare Venezia, ma Trieste. Aveva
progettato un’unica strada ferrata che passasse per Brescia, evitasse di
toccare Milano (in modo da risparmiare una curva di 34 miglia) e
arrivasse fino allo Spluga e ai mercati internazionali. Connettendosi a
una Livomo-Firenze-Modena e non connettendosi a nessuna ferrovia
piemontese, questa linea avrebbe risucchiato verso FAustria tutto il
Mezzogiorno d’Italia e spinto verso sud il Regno di Sardegna. Perciò
Carlo Alberto compì un atto assolutamente antiaustriaco quando
annunciò la costruzione della Genova-Alessandria-Torino. da cui si
sarebbe staccato un tronco diretto su Novara e sul lago Maggiore e un
altro tronco verso la Lombardia «nella dirczione che le circostanze
saranno per consigliare più opportune». Dal lago Maggiore si raggiungono tré valichi (Sempione, San Bernardino e Gottardo), Milano è a un
passo. Fatti-azione sulle correnti di traffico dirette a nord sarebbe stata
irresistibile. I rapporti tra Vienna e Torino non erano troppo buoni fin
dal ”40, al tempo della crisi d’Oriente, e la questione delle ferrovie li
guastò ancora di più.
1 porti. Un porto poteva cessare di esistere se non aveva un binario
che lo collegasse con FEuropa. Qui la concorrenza era fra Trieste,
Genova e Marsiglia e la posta consisteva nei traffici con l’Oriente,
nel trasporto della valigia delle Indie. Arbitri della gara erano gli
inglesi, principali sfruttatori di quelle vie. Per dimostrare che la via
di Trieste non aveva rivali, Metternich finanziò il viaggio del tenente Waghorn, il quale parti da Alessandria d’Egitto a bordo del piroscafo austriaco Imperatore, sbarcò a Trieste e poi, passando per
Innsbruck, Mciningen, Ulma. Mannheim, Bingen, Colonia, Ostenda e Dover, raggiunse Londra in dieci giorni, 15 ore e 45 minuti,
ossia 255 ore e tré quarti, record assoluto. Ma fu presto battuto dai
francesi, per conto dei quali si mise in gara mister Baldwin, padrone
dello «Standard» e del «Morning Heraid» che battè quel primato di
60 ore, passando per Marsiglia. In definitiva non c’era una strada
migliore delle altre una volta per tutte, dipendeva dai tronchi ferroviari e da come si connettevano. Anche Brindisi poteva entrare in
corsa: un treno che si muovesse dal Mezzogiorno d’Italia avrebbe
fatto risparmiare la traversata dell’Adriatico.
Ma lo sbocco naturale di Genova era Milano e ancora una volta la
questione riguardava i rapporti tra Torino e Vienna, un tempo splendidi. Poiché Metternich impediva l’accesso in Lombardia, Carlo
Alberto fu costretto ad aprire trattative con gli svizzeri, con l’idea di
costruire la ferrovia del Lukmanier fino ai laghi di Costanza e di
Wallenstadt. Una volta tanto mostrò dell’energia. L’inviato piemontese aveva dubbi perché nei cantoni in questione (Ticino, Grigioni e
San Gallo) stavano governi repubblicani e costituzionali. Allora il rè
disse:
«Caro conte [si trattava del conte Ricci], la forma dei governi non è
eterna. Cammineremo coi tempi. Dalle relazioni commerciali è facile
procedere a quelle politiche. E sarebbe pure un bei risultato quello
d’una lega che fronteggiasse l’Austria».
Davvero, ogni tanto diceva frasi cosi, che facevano sobbalzare.
Le dogane. Poiché si trattava di una gara di velocità, diventava
decisiva resistenza o meno di una dogana. Se un carico doveva fermarsi ogni dieci chilometri per pagare un pedaggio era finito il vantaggio del treno! A un certo punto l’Europa coincise con la Germania
perché gli Stati tedeschi si misero d’accordo di non riscuotere dazi al
loro interno. Questo era lo Zollverein e tutti tendevano a passar da
quella parte per far prima. L’Austria pagò in quel caso le sue manie
egemoniche, perché i tedeschi la tennero fuori dall’accordo.
Qualcosa del genere avrebbero dovuto fare anche gli italiani e nel ”47
vi fu addirittura una firma a un accordo preliminare tra Carlo Alberto,
Pio IX e il granduca di Toscana. Non se ne fece poi nulla per varie
ragioni, una delle quali era che l’Austria contava troppo nella penisola
e sabotò Fintesa e un’altra era che Cario Alberto era interessato a un
ruolo guida che gli altri non avevano nessuna intenzione di riconoscergli.
Ma, nel campo delle dogane, la svolta avvenne nel ”46 con la diffusione del carbonchio e una spaventosa carestia di cereali. Robert Peel,
primo ministro inglese, per rifornire il Paese in quel momento di
terribile scarsità abbracciò improvvisamente le teorie del libero scambio e abolì il dazio sul granturco. Poi abbassò le tariffe sulle importazioni di grano, avena, orzo, segala e stabilì che dal ”49 il dazio si sarebbe
ridotto a un pedaggio nominale di uno scellino e un quarter. Dimezzò
ancora i dazi su burro, formaggio, luppolo, pesce conservato. Infine si
dimise, dato che con quel gesto aveva negato tutta la sua politica
precedente. Ma, da allora in poi, fu una tendenza costante della politica
inglese quella di favorire i Paesi con meno barriere o addirittura liberisti, rispetto agli altri. Poiché la stragrande maggioranza dei traffici si
convogliava su di essi, era una questione di velocità di trasporto e di
omogeneità dei punti di vista commerciali.
Fu proprio allora che Cavour scrisse il suo articolo più famoso,
quello sulle strade ferrate (Des chemins de fer en Italie). Cominciava:
«// n’y a plus personne possédant une dose ordinaire de bon sens...».
Cioè: non c’è più nessuno con un po’ di buon senso che non capisca
l’importanza delle ferrovie.
Cavour era uno scrittore lento, faticava a trovare le espressioni
giuste. Ma un paio di pezzi, quelli veramente importanti, li compose
con grande rapidità. Il breve saggio sulle strade ferrate fu uno di questi.
In esso il conte prescindeva provocatoriamente dagli ostacoli politici
che impedivano lo sviluppo di una rete ferroviaria nella penisola. Si
parlava di una Genova-Trieste e di una Torino-Milano-BolognaFirenze-Roma-Napoli, a cui dovevano attaccarsi decine di linee
secondarie, come se l’Italia non fosse un mosaico di staterelli ognuno
col suo problema particolare. Arrivò al punto di dire che non c’era da
preoccuparsi per la Trieste-Vienna, la quale secondo alcuni avrebbe
aumentato il dominio dell’Austria in Italia e fatto concorrenza a
Genova. Un giorno - affermò - le situazioni cambieranno e quella
ferrovia sarà il veicolo dell’amicizia tra Italia e Germania.
Il tema dell’indipendenza era affrontato con una franchezza scandalosa. Il congresso di Vienna - scrisse - diede alFItalia un assetto
«arbitrario e difettoso», costruì un «edificio politico privo di ogni base
morale» che non teneva conto ne della geografia ne degli interessi di
ciascuna popolazione. Si era provato ad abbattere quell’edificio con le
cospirazioni, con le rivoluzioni, ma invano. «Il tempo delle cospirazioni è passato, l’emancipazione dei popoli non può sortire da un
complotto ne da una sorpresa, essa è divenuta la conseguenza necessaria del progresso...». E quanto alla rivoluzione democratica, «in
Italia non ha alcuna speranza di successo», perché l’Italia è fatta da
classi medie interessate al mantenimento delfordine sociale e della
proprietà e dunque refrattarie alle «dottrine sovversive della "Giovine
Italia"». «Se l’ordine sociale fosse minacciato davvero, se i grandi
principi su cui riposa corressero un pericolo reale, noi vedremmo
questi castigatori accaniti, questi repubblicani ad oltranza, accorrere in
buon numero nelle prime file del partito conservatore...».
C’era un nesso, invece, tra la ferrovia e la conquista dell’indipendenza, cioè tra un miglioramento economico-sociale e un riscatto
politico. I treni significavano l’annullamento delle distanze tra un
luogo e Paltro e la fine dei municipalismi; una circolazione delle idee
che avrebbe dato alle masse coscienza della propria nazionalità; un
riavvicinamento tra popoli e governi. «I Governi, dotando le nazioni
di questi potenti strumenti di progresso, testimoniano altamente delle
disposizioni piene di benevolenza che li animano e della sicurezza che
sentono intorno a sé. I popoli, riconoscenti per un si grande beneficio,
saranno portati a concepire una fiducia completa nei riguardi dei loro
sovrani. Docili, ma pieni di ardore, si lasceranno guidar da loro alla
conquista dell’indipendenza nazionale». Sostenne che l’indipendenza
non poteva essere raggiunta se tutti i partiti non appoggiavano i sovrani d’Italia. S’immaginava una federazione, alla maniera di Balbo,
costituita grazie alla concordia a cui anche le ferrovie avrebbero condotto.
Fu duro riuscire a far pubblicare quell’articolo. Augusto De La Rive,
temendo che i suoi lettori si spaventassero («abbiamo 60 abbonamenti
in Lombardia’») voleva tagliarlo prima di metterlo sulla «Bibliothèque universelle», ma Cavour glielo impedì. Allora si adoperò per farlo
uscire a Parigi nella «Revue des Deux Mondes», ma Cousin, timoroso
di Metternich, non volle. Finalmente una piccola rivista, la «Revue
nouvelle», decise di correre il rischio e lo stampò nel numero di maggio
del 1846. Cavour, per quanto soddisfatto a metà,-se ne fece tirare
duecento copie.