Pierluigi Battista, Corriere della Sera 31/05/2010; MICHELE SERRA la Repubblica 1/06/2010, 31 maggio 2010
2 articoli - SE LA CULTURA ESISTE SOLO GRAZIE ALLO STATO - Se la cultura muore per i tagli dei fondi statali, vuol dire che la cultura, in Italia, non esiste senza la generosità dello Stato Unico Mecenate
2 articoli - SE LA CULTURA ESISTE SOLO GRAZIE ALLO STATO - Se la cultura muore per i tagli dei fondi statali, vuol dire che la cultura, in Italia, non esiste senza la generosità dello Stato Unico Mecenate. Dipendiamo tutti dallo Stato, noi che lavoriamo nella cultura, nell’informazione, nella comunicazione. Senza erogazioni dello Stato, finisce la cultura. Senza elargizioni dello Stato finiscono i piccoli giornali. Senza le sovvenzioni dello Stato, boccheggia l’arte, il cinema, il teatro, la lirica, la ricerca. Questa è la lezione amarissima che la mannaia finanziaria produce come contraccolpo. Ma se la cultura è controllata, sovvenzionata, accudita, assistita dallo Stato, che cultura libera è? Se istituti, fondazioni e accademia dicono che senza i soldi dello Stato devono chiudere, dov’è la misura della loro libertà? E se i giornali sopravvivono grazie ai contributi dello Stato, come fanno a provare la loro indipendenza? La vecchia massima di Friedrich von Hayek conserva intatto il suo valore: chi controlla tutti imezzi di produzione è irresistibilmente indotto a controllarne i fini. Il mecenatismo non è mai gratuito. Non è un dono: è un’arma di ricatto. Se il mecenate chiude i rubinetti, la cultura rischia di morire assetata. Siamo sicuri che lo statalismo culturale sia poi così più attraente della vituperata logica del mercato? Protestano i cineasti per il dimagrimento del Fondo pubblico destinato al cinema: così, dicono, il cinema muore. Protestano gli addetti agli enti lirici, i corpi di ballo, i teatri stabili, i tecnici degli spettacoli quando lo Stato stringe i cordoni della borsa: così, dicono, viene sepolta la cultura. Protestano i piccoli giornali se lo Stato diminuisce gli stanziamenti che li tengono in vita: così, dicono, muore la libertà di stampa. Tutto vero, purtroppo. Ma è anche giusto? giusto che i 232 istituti culturali che oggi rumoreggiano per le forbici di Stato debbano vantare la loro totale dipendenza dello Stato? In Italia non c’è un film, un concerto, uno spettacolo teatrale, un libro, un giornale, una mostra che possa sopravvivere grazie all’autofinanziamento (se non totale, almeno determinante). allarmante. Dicono che però l’Italia spende per la cultura meno di altri Paesi. Vero. Ma battere sul tasto dello Stato spilorcio non rischia di diffondere la sensazione che la vitalità di una cultura dipenda esclusivamente dalla generosità dello Stato erogatore a fondo perduto? Le buone idee, magari, dovrebbero essere gratis. Se ce le abbiamo, bene. Se non ce le abbiamo, non possiamo dare la colpa allo Stato assistenziale che non assiste più. amaro, ma è così. Ne va del lavoro, del reddito, del benessere di migliaia e migliaia di ottime persone, ma è così. Ma dove c’è totale discrezionalità dello Stato sulle sorti della cultura, lì si annida anche il tarlo dei favoritismi, delle regalie, degli sprechi. Le idee sono gratis. L’assistenzialismo non lo è mai: e in cambio non chiede mai le cose migliori. Pierluigi Battista, Corriere della Sera 31/05/2010 In diligente applicazione della teoria liberista all´universo mondo, Pierluigi Battista si domanda, sul Corriere, se sia giusto che lo Stato finanzi la cultura. Probabilmente si è già risposto da solo, ma mi permetto di aggiungere la mia: non solo è giusto, è anche conveniente, e dev´essere per questo che la Francia fa investimenti culturali pubblici in misura sette volte superiore alla nostra (dodici miliardi di euro contro meno di due). La cultura, così come l´istruzione e la salute, non è materia che può autoregolarsi e automantenersi con le soli leggi di mercato. E´ un investimento sociale di medio, lungo e lunghissimo periodo (spesso un investimento apparentemente a fondo perduto) i cui frutti non sono facilmente monetizzabili. Se i teatri, i musei, le fondazioni, gli istituti di cultura (come gli ospedali e le scuole) dovessero valutare la propria utilità solo sulla base degli incassi, chiuderebbero una settimana dopo. Lo Stato - a nome della collettività - investe sulla cultura perché investe sulla formazione dei cittadini, cioè sul futuro. Il mercato è un selettore spesso provvido, ma altrettanto spesso avido e imprevidente. Premia il talento ma anche la destrezza, l´ingegno ma anche la speculazione. La cultura, per definizione, non vale niente se non per i suoi frutti umani e sociali. Uno paese che se ne dimentica è un paese che non crede più in se stesso. MICHELE SERRA la Repubblica 1/06/2010