Sergio Romano, Panorama 03/06/2010, 3 giugno 2010
CON L’ACCORDO SUL NUCLEARE IRANIANO, TURCHIA E BRASILE LANCIANO UNA SFIDA ALL’AMERICA
Lunedì 17 maggio il Brasile e la Turchia hanno concluso con l’Iran un accordo nucleare molto simile a quello che era in discussione un anno fa tra il «gruppo dei sei» (i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza e la Germania) e il governo di Teheran. L’Iran non rinuncerebbe al diritto di arricchire il proprio uranio, ma affiderebbe ai turchi il compito di garantire l’arricchimento al 20 per cento della quantità necessaria a un reattore con finalità medico-scientifiche. In altre parole, la Turchia in questo nuovo accordo reciterebbe la parte che in quello fallito toccava alla Russia. Si potrebbe sostenere che un membro dell’Alleanza atlantica, qual è la Turchia, dovrebbe dare agli Stati Uniti maggiori garanzie di quante ne desse la Russia. Ma Washington ha reagito freddamente alla notizia dell’accordo e non ha smesso di lavorare a un pacchetto di sanzioni per mettere l’Iran con le spalle al muro.
possibile che gli americani non credano all’efficacia della mediazione turca e brasiliana. Ma è ancora più possibile che abbiano visto nell’accordo di Teheran col premier turco Recep Erdogan e il presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva una sfida alla loro leadership. Brasile e Turchia hanno tratti comuni. Hanno avuto per molti anni eccellenti rapporti con gli Stati Uniti, però hanno assunto da qualche tempo posizioni che il segretario di Stato americano ritiene
pericolosamente eterodosse. Sono potenze regionali emergenti, hanno sistemi economici che negli scorsi anni hanno prodotto buoni risultati e sono entrambe ambiziose. Erdogan e Lula non esitano a coltivare amicizie con paesi che a Washington venivano definiti, all’epoca di George W. Bush, «stati canaglia»: Bolivia, Cuba, Iran e Venezuela nel caso del Brasile, Iran e Siria nel caso della Turchia. Nessuna delle due, in altri tempi, avrebbe osato interferire in questioni che gli Stati Uniti consideravano prioritarie per la sicurezza. Ritengono di poterlo fare perché l’America non è più la potenza dominante di un tempo. un colosso ferito da due guerre inconcluse e da una crisi che è stata concepita e allevata nei suoi santuari finanziari.
L’accordo di Teheran dice al mondo che i problemi possono essere affrontati e risolti anche senza il beneplacito degli
Stati Uniti. Se è questo il significato politico dell’accordo, è più facile comprendere la reazione di Washington. L’America avrebbe potuto approvare in linea di principio il compromesso turcobrasiliano e chiedere più garanzie. Ma ha preferito tirare dritto per la sua strada. Il pacchetto di sanzioni con cui vuole punire l’Iran non è soltanto diretto a stroncare il programma nucleare. anche una prova di forza, una verifica della sua leadership. Più numerosi saranno i paesi pronti ad accettare il pacchetto, più gli Stati Uniti si sentiranno rassicurati. probabile tuttavia che, per giocare questa partita, abbiano scelto il tavolo sbagliato. Le sanzioni, se verranno adottate, si dimostreranno meno efficaci di quanto non sperino gli Stati Uniti. La Russia continuerà a considerare l’Iran un utile cliente, alcune compagnie petrolifere continueranno ad aggirare i divieti e molti paesi, fra cui la Cina, chiuderanno un occhio. Insomma, per usare l’espressione scespiriana, molto rumore per nulla.