Antonello Piroso, Il Riformista 27/5/2010, 27 maggio 2010
«TRENT’ANNI DOPO CI RIPENSO E MI VIENE ANCORA IL MAGONE»
«Se ci ripenso oggi, mi viene ancora il magone». preciso come un computer, Giampaolo Pansa da Casale Monferrato, classe 1935. Un archivio cartaceo leggendario, una miniera di ricordi su quella stagione di sangue, ma al tempo stesso un’emozione che a tratti prende il sopravvento. «Quella mattina del 28 maggio 1980 ero a Roma, alla Stampa Estera, dove Enrico Berlinguer (accompagnato dal fido Tonino Tatò) incontrava i corrispondenti stranieri. Venne la segretaria dell’associazione a dirmi che mi cercava Eugenio Scalfari, di cui all’epoca ero vice a Repubblica. Dissi che non potevo spostarmi perché stavo ascoltando le risposte del segretario del Pci. Dopo un po’, la signora ritorna dicendomi che Scalfari insisteva perché doveva comunicarmi una notizia importante. Andai al telefono, e mi si gelò il sangue: guarda che hanno ammazzato Walter Tobagi, mi disse».
Conoscevi Tobagi da tempo?
Certo. Ti dico solo che il figlio piccolo, Luca, che chiamavamo Tobagino, mi smontò la manopola della cucina a gas della casa che avevo nell’Oltrepo pavese. Walter era più giovane di me perché era del ”47, ma si era già fatto un nome. Un collega serio, rigoroso, uno studioso del movimento sindacale e della galassia del terrorismo, un impasto di culture anche differenti, al tempo stesso cattolico e socialista in sintonia molto forte - e lo dico senza alcuna polemica nei confronti della figlia Benedetta, che ha offerto una ricostruzione differente - con Bettino Craxi, che a sua volta lo stimava e credo gli volesse bene. E chissà cosa sarebbe diventato nella nostra professione se non lo avessero giustiziato sparandogli alle spalle.
Avevate mai parlato dei rischi connessi a quello che scrivevate sulla lotta armata?
Una sera, in quella che sarebbe stata la sua ultima primavera, eravamo insieme a cena a Roma, da Fortunato al Pantheon. Lui aveva scritto dei brigatisti che, dopo l’assalto delle teste di cuoio del generale Dalla Chiesa al covo di via Fracchia a Genova (dove erano morti quattro terroristi), non erano più samurai invincibili. Io avevo raccolto per Laterza le ”Storie italiane di violenza e terrorismo”. Ci dicemmo, come elaborando un sillogismo, che avere paura era umano, ma che non aiutava a sopravvivere, e quindi non serviva. Non perché fossimo degli eroi, ma perché, con lucido fatalismo, avevamo già visto cadere il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno, morto dopo un atroce agonia, e gambizzati Indro Montanelli, il direttore del Tg1 Emilio Rossi e il Guido Passalacqua sempre di Repubblica, solo per citare i bersagli della nostra categoria.
Si è parlato a lungo dei cosiddetti mandanti dei killer di Tobagi, Marco Barbone e gli altri della Brigata XXVIII marzo. Si è parlato del risentimento e del vero e proprio odio che, ad un certo punto, lo circondava, sia al ”Corriere” dove lo avevano ribattezzato ”Craxi driver” sia nel sindacato, dopo che aveva rotto il fronte che per brevità definiremo ”cattocomunista”, diventando segretario dell’Associazione Lombarda. Un clima per cui un paio di volte tornò a casa e fu sentito piangere dalla sua famiglia. Che convinzione ti sei fatto?
No, a questa storia delle menti che avrebbero pianificato e commissionato l’esecuzione non ho mai creduto. Era invidiato, questo sì, perché era bravo, ed era considerato un nemico dai terroristi rossi perché era uno che si sforzava di capire, di andare a fondo, di definire genesi e prospettive di quel fenomeno. Ma insieme con lui erano altri gli obiettivi di Barbone e i suoi: Marco Nozza, inviato del Giorno, che evitò di essere ucciso perché in quel periodo era più a Torino che a Milano per seguire proprio un processo per banda armata, e poi il sottoscritto.
E tu come ti sei salvato?
Per caso e per merito, diciamo così, di Scalfari. Mi tenevano d’occhio quando la mattina portavo a spasso il cane, al Parco delle Basiliche. Solo che il giorno in cui avevano deciso di passare all’azione - ma questo lo scoprii solo in seguito, al processo Barbone non fu in grado di dire di che razza fosse il mio cane, ma lo descrisse perfettamente - il loro appostamento fu inutile: la sera prima ero partito per Roma, perché sia Scalfari che Gianni Rocca, l’altro vice, erano influenzati, e io andai in redazione per garantire l’operatività del giornale. Loro invece pensarono che avessi capito e quindi avessi tagliato la corda.
Barbone, arrestato nell’autunno 1980, viene rimesso in libertà il giorno stesso della condanna in primo grado, nel novembre 1980, per il suo contributo dato alle indagini e nell’individuazione dei complici. In tribunale scoppia una bagarre nel settore del pubblico: non perché la pena era stata lieve e lui scarcerato, ma perché aveva tradito i compagni. Una scena incredibile.
E di cosa ti stupisci, scusa? Quello era il clima di quegli anni infami. L’accecamento e il furore si erano accumulati, e non solo nelle frange estreme ma anche in alcuni settori della cosiddetta ”intelligencija”, come tossine velenose.
La sera prima di essere assassinato Tobagi moderò un incontro pubblico su un tema spinoso e, se vuoi, purtroppo ancora di attualità: fare cronaca tra segreto istruttorio e segreto professionale. Avanzando tesi dirompenti, tra cui quella di fornire ai lettori gli elementi che consentano l’identificazione della fonte che ha diffuso in un certo momento una notizia, altrimenti, concludeva, «i giornali rischiano di diventare strumenti per guerre combattute per conto terzi». Una conferma della sua lungimiranza nel vedere i problemi in anticipo, mentre siamo impegnati a contrastare il ddl che non riguarda solo le intercettazioni ma tutta la libertà di stampa?
Assolutamente sì, anche se consentimi di non mescolare il doveroso ricordo di un collega e di un amico con le miserie, i disegni e le manovre della politica di oggi (anche se ci potremmo interrogare su come Tobagi avrebbe raccontato e spiegato quello che sta accadendo). Dico solo, dall’alto dei miei 74 anni: stiamo attenti a non ritrovarci fautori del fanatismo ideologico comunque inteso, perché quella è la sempiterna matrice di ogni degenerazione e perversione.