Luigi Spinola, Il Riformista 25/5/2010, 25 maggio 2010
PERES OFFR LA BOMBA AL SUDAFRICA RAZZISTA? LO SCOOP UN FLOP
La bomba nucleare israeliana è da tempo un inviolabile segreto di pulcinella. I tecnici preferiscono chiamarla ”opacità nucleare”: lo Stato ebraico oggi dovrebbe avere circa 200-400 testate, ma Gerusalemme, che non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione, formalmente non conferma né smentisce l’esistenza stessa di un programma a fini bellici. E il silenzio aiuta a tenere in piedi l’instabile equilibrio mediorientale, imperniato sull’asimmetria nucleare.
Equilibrio ieri messo alla prova dallo scoop - o presunto tale - realizzato dal Guardian. Il Governo israeliano nel 1975 avrebbe offerto testate nucleari al regime sudafricano. Secondo i documenti pubblicati dal quotidiano britannico, l’allora ministro della Difesa Shimon Peres s’incontrò con il suo omologo Botha per trattare la compravendita di testate «di tre tipi» (convenzionale, nucleare e chimica ipotizza il Guardian). L’affare poi sfumò.
L’imbarazzante negoziato è stato riesumato da uno studioso americano, Sasha Polakow-Suransky, che ha chiesto e ottenuto dal Sudafrica post-apartheid la ”declassificazione” di documenti top secret. Documenti che costituirebbero la prima prova documentale dell’esistenza del programma militare nucleare israeliano. «Il velo è strappato - sostiene il Guardian - Israele ora sarà costretta a giocare a carte scoperte».
L’impressione però è che lo scoop abbia fatto flop. Israele nega tutto. «Il Guardian ha scritto un pezzo basato sull’interpretazione selettiva di documenti sudafricani - dichiara il portavoce del presidente israeliano Shimon Peres - non c’è un solo pezzo di carta firmato da un israeliano che confermi i negoziati». E nessuno, neanche i vicini arabi d’Israele, sembra intenzionato a brandire i documenti per ”smascherare” lo Stato ebraico. L’opacità nucleare dovrebbe reggere.
Questo non significa che lo scoop del Guardian sia una bufala. Se non vero, certo è verosimile. All’indomani della guerra del Kippur, i rapporti tra Israele e Sudafrica s’intensificano, in parallelo con il progressivo isolamento di Pretoria. Nel 1976 l’occidente interrompe ogni forma di collaborazione nucleare col regime sudafricano, accusato di portare avanti un programma militare. Tre anni dopo, un satellite Usa di tipo ”Vela”, munito di speciali sensori, registra un ”flash” nell’Oceano Indiano. La conferma non c’è - l’ipotesi di un falso allarme non si può scartare - ma gli esperti sono convinti che si sia trattato di un test nucleare sudafricano. Realizzato grazie alla collaborazione degli israeliani.
Non stupisce neanche ritrovare Shimon Peres nel ruolo di protagonista del presunto negoziato, perché l’attuale capo di Stato è da sempre l’uomo del nucleare israeliano. Non ha neanche trent’anni Peres quando nel ’53 viene scelto come Direttore Generale del Ministero della Difesa. E tre anni dopo, nel contesto della Crisi di Suez, sfrutta al meglio la partnership con i francesi per dare il via al programma nucleare.
Nasce così l’impianto di Dimona, perno del programma nucleare israeliano. E della relativa opacità. Tant’è che quando Mordechai Vanunu, tecnico impiegato per anni al sito del Negev, decide di farsi ”gola profonda” per il britannico Times, la sanzione è immediata. Il Mossad preleva Vanunu a Roma e lo riporta in patria, dove la giustizia lo condanna a 18 anni di galera per spionaggio e tradimento. Proprio ieri Vanunu è tornato dentro per altri sei mesi per aver violato i termini della scarcerazione.
In sintesi, la materia è già nota. La presunta rivelazione del Guardian però potrebbe inguaiare Israele. Perché la trattativa con il regime segregazionista di Pretoria indebolisce le ragioni del doppio standard, implicitamente in vigore sulla questione nucleare: l’idea che la bomba in mano a Israele sia accettabile perché Gerusalemme - a differenza ad esempio di Teheran - si comporta in modo responsabile. Non la usa e non la vende.
Tutto questo se i documenti fossero attendibili. E se qualcuno avesse davvero l’intenzione di usarli per denunciare la bomba israeliana, correndo così il rischio di innescare un pericoloso domino nucleare in medio oriente. Perchè il trattato di non proliferazione - e la sua possibile estensione a tempo indeterminato, sul quale la comunità internazionale sta lavorando in questi giorni - si regge sulla divisione tra Paesi che hanno la bomba e i Paesi che non ce l’hanno. Un’impalcatura fragile che la proclamazione di un nuovo Stato nucleare de facto potrebbe far crollare.
Se Israele avesse la malaugurata idea di fare un formale ”coming out” nucleare, gli Stati arabi potrebbero legittimamente (art.10) tirarsi fuori dall’accordo. Ma l’impressione è che questa opportunità - e la pressione che ne deriverebbe - non interessi minimamente i governi della regione. Più preoccupati della minaccia iraniana che della bomba israeliana. L’opacità nucleare ha molti inconfessabili sostenitori.